La perdita della memoria è abbandono. Si abbandona e si è abbandonati. Non ci sei più e già ti manchi. L’abbandono è cosa dolorosa e struggente, è desolazione, incuria e degrado: lo temi in vita e così in morte e la sola idea di non essere ricordati fa male.
L’annullamento, però, può essere vissuto in modi non necessariamente negativi.
In senso fisico, per esempio, l’abbandono è rilassamento. È una resa al fluire naturale delle cose.
Prima o poi ci si perde e si viene persi, lo puoi capire incrociando le file dei nomi incisi sulle lapidi in un cimitero. Il giusto luogo può dare una prospettiva diversa al dolore, alla perdita d’identità. Il cimitero di Staglieno, a Genova, si estende su una collina e, camminando fra le lapidi e le statue inghiottite dalla natura, ti inoltri fra identità perdute. Le sfiori in un pomeriggio domenicale struggente senza essere molesto. Intuisci quelle vite nelle statue scolpite chissà quando, chissà da chi, negli angeli imperiosi e nei mausolei. La bellezza malinconica negli sguardi erosi è ineludibile, le tombe invase dal muschio, la magnificenza che è stata pensata, ordinata e scolpita. Tutto questo è passato, ma forma un’atmosfera unica, viva. Ne sei coinvolto. C’è una pace in questo smarrirsi e senza volerlo intuisci che forse c’è un altro modo di abbandonarsi al mondo, di lasciarlo fluire nella morte. E forse anche nella vita.
La natura, semplicemente, ha preso il sopravvento sui singoli, che siano celebrati dal mausoleo più grande o da una lapide con solo il nome sopra. Ormai le piante sono tutt’uno con la pietra.
La perdita di identità, dei mille che sono stati, di milioni o miliardi di persone prima di noi, ci appartiene. Il lutto e l’abbandono come li pensiamo normalmente, quella perdita incolmabile che ci spaventa, qui esprimono verità e bellezza.
Alcuni luoghi fanno da catalizzatori di sensazioni e realizzano, nel senso che rendono reali, quasi tangibili, i concetti più astratti.
Sì, ci perderemo. Prima o poi verremo dimenticati, lo sanno anche i più famosi, i più sicuri di sé. Ma la lotta per esserci a ogni costo qui si è ormai consumata. Il verde ha vinto sulla pietra, sui nomi, sulla volontà scolpita in statue che ormai sono parte struggente del paesaggio. Questa sensazione dal sapore vagamente buddista in questo verde non è filosofia orientale ma un sollievo – una consapevolezza che possiamo provare a portarci a casa.
È questo il consiglio del Salone del Lutto. Un pomeriggio all’aperto. Cambiare prospettiva. E magari, per un po’, abbandonarsi dolcemente alle sensazioni.
Salutate l’angelo di Monteverde, se lo incrociate.
E passate oltre.