Nell’epoca dell’Infischio ce n’era di gente strana per strada.
Era giunto il tempo di tutti, e tutti potevano permettersi finalmente
di cambiare qualsiasi idea, ognuno aveva il diritto di non finire quel che stava facendo,
si potevano lasciare le porte aperte e le luci accese.
Nessuno si aspettava atti compiuti e si era molto tolleranti verso le altrui intemperie.
Le domande si facevano solo in modo vago, perlopiù sul tempo,
e gli individui erano ritornati tali, con la loro singolarità.
Uomini e donne facevano a modo loro e potevano restare un poco di più nella loro testa
invece di precipitarsi in quella degli altri.
Un giorno di gennaio io uscii brevemente dal duemilaquattordici
e mi recai nell’epoca dell’Infischio per dare un senso alla mia indisciplina.
Una signora passeggiava con un pollice infilzato in un mandarino:
lo stava sbucciando, ma poi le venne voglia di susine e rimase così, senza saper che fare.
Un uomo sedeva in pigiama, su una panchina, abbracciando un tostapane.
Voleva fosse per sempre colazione, principio, risveglio, dolcezza.
Sua moglie sarebbe rientrata quella sera per lasciarlo.
Un cavallo cavalcava un poliziotto perché era da tanto che voleva farlo.
Una ragazza girava nuda con un colbacco sulla testa
e il suo ragazzo rideva tenendola per mano.
Si piacevano molto e lui le aveva regalato un libro di poesie russe.
Lei si era spogliata per scommessa o forse per amore, magari per entrambi.
Un uomo indebitato aveva chiuso il computer e ora lo stava apparecchiando con cura,
seduto sui gradini di un centro commerciale chiuso per noia.
Il piatto dove avrebbe mangiato era del Buon Ricordo,
pennellato con un’aragosta che ride e con la scritta Ristorante allo Scoglio dal 1978.
Quando decisi di rientrare s’era fatto tardi, ma solo per me.
Poco prima di partire mi voltai.
Giusto in tempo per vedere qualcuno che liberava decine di colombe da un cilindro.
Non credo fosse un mago ma io, finalmente, mi sentii invadere da quel senso di pace
che andavo cercando.