Quel giorno cominciò con un grido.
Un vagito all’incontrario. Qualcuno stava morendo, per tornarsene da dove era venuto. Mi affacciai e il palazzo di fronte aveva tutte le imposte chiuse, palpebre di legno a difendere il sonno dei condomini. Tutte, tranne una. I miei occhi attraversarono quel buio lontano e riuscii a scorgere un corpo. Un corpo morto, con gli occhi chiusi, proprio come le imposte di quel palazzo. I capelli che toccavano le spalle erano biondi, le pupille sotto la carne chiusa erano celesti, come la volta del cielo, che considerava questo mio guardare come un furto. Del morto si sapevano il profumo, l’assoluta indecenza delle arterie e l’esibizione magnifica di resti di ali. Gli ossicini, la danza del sangue rappreso intorno ai polsi e le lame di luce, macchiate di rosso.
L’alba aveva ucciso un angelo.
Allora ho chiuso la finestra e mi sono seduta, dando le spalle al cielo. Mi sono chiesta dove fosse finito il bambino custodito dall’angelo, quale guerra l’avesse strappato alla Terra, quale pena fosse passata in quegli occhi allagati di pioggia. Quando muore un angelo la bocca diventa buia, il respiro ha il suono del fuoco che brucia le case e il fumo ci impedisce di continuare a guardare. Quel giorno, il palazzo di fronte diventò un’astronave e si portò via tutti i suoi abitanti, colpevoli d’inerzia e assuefazione. Rei di mancare a loro stessi. Il bambino di cristallo, invece, uscì dall’angelo e rimase vicino al corpo. Prese le piume, una a una, e ricompose le ali.
Quel giorno terminò con un volo.
Un volo all’incontrario. L’angelo e il suo bambino di cristallo bucarono la Terra e la resero fertile e nuova. L’intelligenza e la bellezza chiusero gli occhi all’odio e al potere e da allora nessuno, nessuno più, si ricordò cosa fosse una guerra.