C’era una fonte limpida, dalle acque argentee e trasparenti,
che mai pastori, caprette portate al pascolo sui monti
o altro bestiame avevano toccato, che nessun uccello, fiera
o ramo staccatosi da un albero aveva intorbidito.
Intorno c’era un prato, che la linfa vicina nutriva,
e un bosco che mai avrebbe permesso al sole di scaldare il luogo.
Qui il ragazzo, spossato dalle fatiche della caccia e dal caldo,
venne a sdraiarsi, attratto dalla bellezza del posto e dalla fonte,
ma, mentre cerca di calmare la sete, un’altra sete gli nasce:
rapito nel porsi a bere dall’immagine che vede riflessa,
s’innamora d’una chimera: corpo crede ciò che solo è ombra.
Attonito fissa sé stesso e senza riuscire a staccarne gli occhi
rimane impietrito come una statua scolpita in marmo di Paro.
Disteso a terra, contempla quelle due stelle che sono i suoi occhi,
i capelli degni di Bacco, degni persino di Apollo,
e le guance lisce, il collo d’avorio, la bellezza
della bocca, il rosa soffuso sul niveo candore,
e tutto quanto ammira è ciò che rende lui meraviglioso.
Desidera, ignorandolo, sé stesso, amante e oggetto amato,
mentre brama, si brama, e insieme accende ed arde.
Quante volte lancia inutili baci alla finzione della fonte!
Quante volte immerge in acqua le braccia per gettarle
intorno al collo che vede e che in acqua non si afferra!
Ignora ciò che vede, ma quel che vede l’infiamma
e proprio l’illusione che l’inganna eccita i suoi occhi.
Ingenuo, perché t’illudi d’afferrare un’immagine che fugge?
Ciò che brami non esiste; ciò che ami, se ti volti, lo perdi!
Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi,
trad. di M. Ramous, Milano: Garzanti.