Diversamente Amare

di Fabrizio Izzo

- In fin dei conti poi, cos’è l’amore? A me non serve amare, tanto meno vivere.
- L’amore non esiste. Io non amo tua madre, sono sceso a patti con lei, per te figlio sarà ancora più difficile trovarlo.
Sono nato il 20 settembre 1980 e oggi, 20 settembre 1995, confido al mondo che non conosco l’amore, non amo né sono amato. Erano le prime parole della mia storia, quella vera, reale, intensa. Mio padre, un tipico uomo di mondo, come amava definirsi, mi ha sempre detto, con fare autoritario, che l’amore non esisteva, rincarando poi con uno sbiascico di parole che mi toglievano ogni speranza. Non sarei stato amato né avrei amato mai. Forse, tra le righe, ho sempre visto qualcosa che non andava in quella frase: non una bugia, ma un tentativo di allontanarmi da tale emozione, facendomi perdere la retta via. Sarà, comunque io, la retta via, fino a oggi, papà, non l’ho mai persa. - Io non amo tua madre, sono sceso a patti con lei, per te figlio sarà ancora più difficile trovarlo. Un giorno chiesi al parroco di zona cosa fosse questo amare; mi guardò un po’ strano, quasi intimorito, e mi disse :“Vinicio, l’amore è un sentimento bello: io amo Dio, come tua padre ama tua madre”. “Mio padre non ama mia madre” pensai. Mi guardavo intorno, durante quelle rare passeggiate, leggevo storie, poesie, ma non riuscivo a togliermi dalla testa quella frase di mio padre. - A me non serve l’amore. Tanto non lo conosco. E poi se è difficile non lo voglio. L’amore non esiste. Io non amo tua madre, sono sceso a patti con lei, per te figlio sarà ancora più difficile trovarlo. Un giorno, chiesi a mia madre di accompagnarmi al parco: erano anni che non uscivo di casa.
Il profumo del mondo vero sembrava più buono di quello che annaspando annusavo dalla mia finestra. Mia madre spinse a fatica la carrozzella fino alla prima panchina del parco, sotto l’ombra di un pioppo che con la sua chioma spezzava la calura del sole. Era stanca, mia madre, aveva il viso solcato di rughe, sconsolato, forse arreso. D’un tratto si avvicinò a noi una sua cara amica e mamma sorrise. Quasi subito cominciarono a parlare della mia malattia. Io annuivo. Mia madre recitò il suo discorso preferito. Ogni volta rivedevo in lei le stesse espressioni, le stesse movenze, interpretava la sua parte e, dopo aver finito, sputava giù domande a tutto spiano e, lasciando la parola alle sue amiche, rilasciava il viso dall’ansia, quasi sollevata. La straziava quella vita, così diversa, così dura. Amava ascoltare, non le piaceva parlare, e soprattutto non le piaceva parlare di me. “Sì, tutto bene grazie, Vinicio eccolo, è in gran forma, la sua malattia è stabile, negli ultimi anni è un po’ peggiorata in realtà. Non parla, scrive, fa cenni col capo, indica un po’ con le dita. È dura ma si tira avanti. È mio figlio del resto. Mio marito, tutto bene. È un po’ scontroso ultimamente. Tu come stai? A casa? Il lavoro? Tua madre? I ragazzi? I vicini che dicono? E il cane, come sta? Raccontami!”. Ore e ore di chiacchiere mentre io beatamente scrutavo il mondo, dal mio posto. Erano anni che non uscivo. C’era una coppia, forse erano sposati. Passeggiavano mano nella mano sul viale, lui le accarezzava i capelli, lei sorrideva e si alzava sulle punte, intrecciando i piedi ogni volta che lui le tendeva un abbraccio. Muovevano vertiginosamente le mani, sembravano le ali di quella farfalla che, forse innamorata, girava loro intorno. Ora la bacia. Ancora distante, rubavo le emozioni di chi mi stava intorno. Uscire di casa nella mia situazione era piacevole ma allo stesso tempo distruttivo. Spesso, quando rincasavo, la mia storia si mescolava a tutte quelle che da spettatore avevo osservato, in silenzio, il mio lungo silenzio. “PORCA che botta!”. Improvvisamente ricevetti una pallonata in pieno viso, che fece quasi ribaltare la carrozzina. Mia madre lanciò un urlo assordante. La sua amica si lasciò andare a pensieri inquietanti: “ODDIO, è morto”. Fu il panico generale. Mi sanguinava il naso, forse mi ero rotto un dente, la carrozzella aveva barcollato, non sapevo se mi ero pisciato o cagato sotto. Lei era bellissima e mi venne subito incontro, avvolta in una luce bianca intensa, quasi irreale, che mi impediva di guardarla. Forse ero morto davvero. Mi sollevò la testa e mi strinse un fazzoletto sul naso. All’improvviso iniziai a sentirmi debole, stanco. Mi risvegliai a casa, nel letto, con due medici e i miei genitori, lì, fermi, davanti a me. Stanchi, impauriti, disperati, vecchi. Mi ci volle qualche giorno per riprendermi, la pallonata mi aveva destabilizzato completamente. - L’amore, non esiste. Io non amo tua madre, sono sceso a patti con lei, per te figlio sarà ancora più difficile trovarlo. Un mese a casa, era come una clausura. Quelle due ore d’aria, per me, erano state come una boccata di ossigeno per chi annaspa sott’acqua. Ero abituato a stare solo, abituato a costruire il mio mondo intorno ai muri di quella stanza. Mi erano rimasti quei profumi sotto le narici, sentivo ancora quel sole, la calura e il vento fresco sotto l’ombra di quell’albero. Pensai a quella ragazza. Al modo più sbagliato di presentarsi. Due mesi a casa…
- Dovrei uscire un po’, ma non vogliono. Paurosi, cattivi, egoisti. Forse esiste. Sette mesi. Ero indeciso se fingere un malanno e costringerli a portarmi in un ospedale di zona, per respirare un po’ di aria pulita, o semplicemente per far loro un dispetto. Era successo qualcosa di strano, mi sentivo in gabbia. Non riuscivo a spiegarmi questo bisogno di uscire, di respirare, di guardare paesaggi che si susseguivano imprecisi e ascoltare le voci degli altri, che come una colonna sonora mi aiutavano a viaggiare con loro. Al parco, le voci, i colori, i profumi, quella ragazza. - Uffa, mi sono stufato. Un giorno mia madre entrò frenetica nella stanza: “Domani è il tuo compleanno. Che vuoi fare? Usciamo? Guarda su! Se vuoi restare a casa, guarda giù. Per poco non mi si staccò il collo a forza di guardare in alto. - Domani si esce! Ero emozionato, curioso, affascinato, impaurito da quelli che giocavano a palla, contento. Entrammo nel ristorante. Non so spiegare per quale legge fisica ma, tra le 50 o 60 persone che avevo davanti, in piedi o sedute, vidi subito lei, la bionda. Forse era un caso oppure un segno: sta di fatto che lei era lì, seduta al tavolo con alcuni amici. Provai ad annusarla da lontano: era fresca, libera. La guardai intensamente, quasi ipnotizzato, lei incrociò il mio sguardo e, ricordandosi di me, si alzò per venirmi incontro. Sorrideva. Era una delle cose più belle che i miei occhi avessero mai visto. “Ciao, ti ricordi di me? Sono quella della pallonata al parco. Piacere, Sabrina”. Annuivo. “Non parla!” disse mia madre. Gli spiegò che non parlavo e non mi muovevo tanto, ma capivo tutto. Quindi, per rispondere usavo piccoli gesti. Sorrise e continuò a parlare per un po’ con i miei genitori. Non so se dipendesse ancora dalla pallonata o dal suo profumo, le sue gambe, il suo sorriso, comunque persi la cognizione del tempo e della realtà. “Ti va se vengo a trovarti ogni tanto? Sai, io studio psicologia del linguaggio. Vorrei capire il tuo, per poterti dare una mano, se vuoi”. Fu forse la prima volta che, nel rispondere, non guardai prima i miei genitori. Alzai il capo, che per me era un sì, e mia madre tradusse. Non sapevo bene come si facesse in quei casi o cosa si dovesse dire. Annotò l’indirizzo di casa mia e ci salutammo. Cenai in silenzio. Ovvio, dato che non parlavo. Pensai a lei, al nostro primo appuntamento, al viso arrabbiato di mio padre, a quello curioso di mia madre. Due settimane dopo si presentò al campanello e mamma andò ad aprire. Venne in camera mia e, dopo qualche convenevole, iniziò a parlare di sé, della sua università, i suoi progetti… Non la interruppi, mi piaceva ascoltarla, era la prima volta che sentivo una storia vera, emozionante. Feci in modo che il mio viso e una parte del mio corpo (l’altra non avrebbe potuto) non accennassero al ben che minimo movimento: rimasi immobile, per farle capire che poteva continuare quanto voleva. Aveva una bella voce, la sua storia era incalzante, intensa, vissuta. La mia prima vera storia mi cadde addosso come una bella doccia fredda. Avevo qualcosa su cui sognare, qualcosa di diverso da tutte le storie della televisione. In un mese, venne spesso: mi sentivo felice, vivo. Mi faceva strano immaginare la mia vita e le mie giornate, così diverse l’una dall’altra. Inaspettatamente, mi accorsi che c’era tanto intorno a me da conoscere. Una sera venne alle sette per cena, mi feci trovare in carrozzella, vestito di tutto punto. Mi volle fare una sorpresa, portarmi a cena fuori. Mio padre storse la bocca. Lo farà soffrire, lui non è normale lo sai! Non devi farla più venire. Bravo papà. L’amore non esiste. Io non amo tua madre, sono sceso a patti con lei, per te figlio sarà ancora più difficile trovarlo. Io non esitai, uscimmo. Lasciandomi alle spalle quella casa, da solo, avvertii, forse per la prima volta, una strana sensazione di normalità: era quello che mi mancava. Dopo una cena veloce in un ristorante vicino al mare, mi portò sulla spiaggia. Camminammo per ore. Quel mare di notte mi sembrò dipinto. La sera tornai a casa e mia madre mi mise a letto. Stranamente, mentre lo faceva, mi guardava fisso negli occhi: sembrava volesse scrutare qualcosa. Mi chiese se ero felice. Io alzai la testa, lei sorrise. Mi diede un bacio in fronte, sembrava fiera, soddisfatta. I nostri appuntamenti si fecero sempre più frequenti. La mia storia iniziò a scriversi da sola. Mi accorsi che nella mia strana e solitaria situazione, in quelle notti dove sognavo di essere altro, non riconoscendo mai il mio volto in quello del protagonista, era cambiato qualcosa. Non rubavo più le emozioni di chi mi stava intorno. Mi fu difficile, poi, sognare nuovamente in quel modo. Iniziai a riconoscermi nelle mie storie e, potendo sognare il mio domani, mi sentii diverso dalla mia diversità. Le mie storie erano un flusso di pensieri, che nella loro irreale situazione estremizzavano sempre il bene e il male della mia vita. Scrissi un giorno a mio padre una piccola lettera, dove forse non riuscii a riassumere tutto quello che volevo dirgli. Ho perso la retta via, papà, la tua, e ho trovato l’AMARE, finalmente.
- Dovrei uscire un po’, ma non vogliono. Paurosi, cattivi, egoisti. Forse esiste. Sette mesi. Ero indeciso se fingere un malanno e costringerli a portarmi in un ospedale di zona, per respirare un po’ di aria pulita, o semplicemente per far loro un dispetto. Era successo qualcosa di strano, mi sentivo in gabbia. Non riuscivo a spiegarmi questo bisogno di uscire, di respirare, di guardare paesaggi che si susseguivano imprecisi e ascoltare le voci degli altri, che come una colonna sonora mi aiutavano a viaggiare con loro. Al parco, le voci, i colori, i profumi, quella ragazza. - Uffa, mi sono stufato.  Un giorno mia madre entrò frenetica nella stanza: “Domani è il tuo compleanno. Che vuoi fare? Usciamo? Guarda su! Se vuoi restare a casa, guarda giù”. Per poco non mi si staccò il collo a forza di guardare in alto. “Domani si esce!”.  Ero emozionato, curioso, affascinato, impaurito da quelli che giocavano a palla, contento. Entrammo nel ristorante. Non so spiegare per quale legge fisica ma, tra le 50 o 60 persone che avevo davanti, in piedi o sedute, vidi subito lei, la bionda. Forse era un caso oppure un segno: sta di fatto che lei era lì, seduta al tavolo con alcuni amici. Provai ad annusarla da lontano: era fresca, libera. La guardai intensamente, quasi ipnotizzato, lei incrociò il mio sguardo e, ricordandosi di me, si alzò per venirmi incontro. Sorrideva. Era una delle cose più belle che i miei occhi avessero mai visto. “Ciao, ti ricordi di me? Sono quella della pallonata al parco. Piacere, Sabrina”. Annuivo. “Non parla!” disse mia madre. Gli spiegò che non parlavo e non mi muovevo tanto, ma capivo tutto. Quindi, per rispondere usavo piccoli gesti. Sorrise e continuò a parlare per un po’ con i miei genitori. Non so se dipendesse ancora dalla pallonata o dal suo profumo, le sue gambe, il suo sorriso, comunque persi la cognizione del tempo e della realtà. “Ti va se vengo a trovarti ogni tanto? Sai, io studio psicologia del linguaggio. Vorrei capire il tuo, per poterti dare una mano, se vuoi”. Fu forse la prima volta che, nel rispondere, non guardai prima i miei genitori. Alzai il capo, che per me era un sì, e mia madre tradusse. Non sapevo bene come si facesse in quei casi o cosa si dovesse dire. Annotò l’indirizzo di casa mia e ci salutammo.  Cenai in silenzio. Ovvio, dato che non parlavo. Pensai a lei, al nostro primo appuntamento, al viso arrabbiato di mio padre, a quello curioso di mia madre. Due settimane dopo si presentò al campanello e mamma andò ad aprire. Venne in camera mia e, dopo qualche convenevole, iniziò a parlare di sé, della sua università, i suoi progetti… Non la interruppi, mi piaceva ascoltarla, era la prima volta che sentivo una storia vera, emozionante. Feci in modo che il mio viso e una parte del mio corpo (l’altra non avrebbe potuto) non accennassero al ben che minimo movimento: rimasi immobile, per farle capire che poteva continuare quanto voleva. Aveva una bella voce, la sua storia era incalzante, intensa, vissuta. La mia prima vera storia mi cadde addosso come una bella doccia fredda. Avevo qualcosa su cui sognare, qualcosa di diverso da tutte le storie della televisione. In un mese, venne spesso: mi sentivo felice, vivo. Mi faceva strano immaginare la mia vita e le mie giornate, così diverse l’una dall’altra. Inaspettatamente, mi accorsi che c’era tanto intorno a me da conoscere. Una sera venne alle sette per cena, mi feci trovare in carrozzella, vestito di tutto punto. Mi volle fare una sorpresa, portarmi a cena fuori. Mio padre storse la bocca. Lo farà soffrire, lui non è normale lo sai! Non devi farla più venire. Bravo papà. L’amore non esiste. Io non amo tua madre, sono sceso a patti con lei, per te figlio sarà ancora più difficile trovarlo. Io non esitai, uscimmo. Lasciandomi alle spalle quella casa, da solo, avvertii, forse per la prima volta, una strana sensazione di normalità: era quello che mi mancava. Dopo una cena veloce in un ristorante vicino al mare, mi portò sulla spiaggia. Camminammo per ore. Quel mare di notte mi sembrò dipinto. Tornai a casa e mia madre mi mise a letto. Stranamente, mentre lo faceva, mi guardava fisso negli occhi: sembrava volesse scrutare qualcosa. Mi chiese se ero felice. Io alzai la testa, lei sorrise. Mi diede un bacio in fronte, sembrava fiera, soddisfatta. I nostri appuntamenti si fecero sempre più frequenti. La mia storia iniziò a scriversi da sola. Mi accorsi che nella mia strana e solitaria situazione, in quelle notti dove sognavo di essere altro, non riconoscendo mai il mio volto in quello del protagonista, era cambiato qualcosa. Non rubavo più le emozioni di chi mi stava intorno. Mi fu difficile, poi, sognare nuovamente in quel modo. Iniziai a riconoscermi nelle mie storie e, potendo sognare il mio domani, mi sentii diverso dalla mia diversità. Le mie storie erano un flusso di pensieri, che nella loro irreale situazione estremizzavano sempre il bene e il male della mia vita. Scrissi un giorno a mio padre una piccola lettera, dove forse non riuscii a riassumere tutto quello che volevo dirgli. Ho perso la retta via, papà, la tua, e ho trovato l’AMARE, finalmente.