Era rimasta in silenzio a guardare la grande luce scivolare dietro ai palazzi,
in fondo alla strada. Non sapeva darle un nome, ma ora stava svanendo lasciando dietro di sé un alone rossastro incagliato tra le rigide geometrie dei palazzi.
Parte di quella luce era però rimasta ancorata a pochi metri da terra, in piccole stanze alte e filiformi sparse lungo la via. Sbattendo le grandi ali marroni si avvicinò incuriosita. Desiderava adagiarsi e sentire la rotondità di quel bagliore, ma ogni volta che il volo la portava a poca distanza dall’oggetto del suo affanno, qualche cosa di rigido e invisibile la ostacolava.
Tutta la notte cercò caparbiamente di oltrepassare quel muro incolore, e tutta la notte il suo viso vi andò a sbattere.
Il mattino dopo, sfinita dal volo notturno e dagli inutili tentativi di raggiungere la luce, si adagiò sul tetto di
quella strana costruzione.
Sul volto addormentato erano comparsi lividi simili a fiori purpurei e tra loro un timido sorriso.
Ricordo dell’accecante
bellezza che non si era dileguata
con il finire della notte.