Editoriale

di Francesca Del Moro

Era (me lo ricordo bene) la colonia estiva
non si respirava son sicuro che
la corriera partiva e poi salutavano
c’era una storia d’amore c’era un reggiseno
mentre lo slacciava mi ricordo che
il complesso suonava e poi solo tenebre...

(Baustelle, “Le vacanze dell’83”)

La vacanza, come suggerisce la parola stessa, è un periodo in cui la nostra vita si libera degli impegni di lavoro o di studio e torna vuota, anche se per poco. Ed è possibile riempirla di esperienze al di fuori dei doveri che scandiscono il nostro tempo, coltivando pensieri, riscoprendo la natura e i rapporti con le persone, a fondo e con lentezza. Enrico Crucianelli affronta il cambio di stagione, aprendo i cassetti e i propri sensi all’estate in arrivo. La sua poesia è un’esplosione vitale che centra il difficile obiettivo di esprimere la felicità. Non meno gioiosa è la filastrocca di Roberta Lipparini, che con divertito stupore ammira i segni lasciati sul proprio corpo da un giorno di vacanza. Una giornata al mare è protagonista anche del ricordo di Kira A, intriso di nostalgia. I suoi versi accarezzano il lettore col ritmo lento del mare che lambisce la spiaggia, portandolo ad abbandonarsi alle parole, come lei vorrebbe all’acqua. Una nota aspra viene invece dalla poesia di Alessandro Dall’Olio, che ci apre gli occhi a forza sull’altra faccia delle vacanze. I doveri che strozzano la nostra vita spesso ci impediscono di udirne il vuoto rimbombo, ed esserne spaventati. Ed è un vero terrore quello che si prova al vedere le coppie ormai prive di intimità e di qualunque slancio, che come automi adempiono ai riti dei giorni festivi.

più feroci del criminale che disbosca
sono gli amori immobili
per mano in tuta al sabato nel centro commerciale,
agosto tuttocompreso con pantaloni alla caviglia,
a trascorrere una vita senza vita
coi polsi muti di sangue raffermo
immobili come nelle foto tra le cabine
senza slanci sotto le palpebre
senza uscire mai dai boschi oscuri
delle menti immobili.

E il verde di là dal vetro è già più verde

di Enrico Crucianelli

E il verde di là dal vetro è già più verde
se mi risvegliano voci tra i rami
e un taglio di luce meno obliquo
si stampa su una piega di lenzuolo
color mandarino.
Smetterò la lana che prude e le sciarpe
che sanno di freddo, avrò l’aria di nuovo
sulle braccia e sulle gambe sorprese
di tanta vita che torna alla vita.
Avrò bisogno di occhiali da sole
uscendo all’aperto sul tiepido asfalto,
sentirò che fitte ronzano le api
tra le foglie dei tigli
che sanno di paradiso
e traslucida giallobianca dolcezza.
E di nuovo aprirò i cassetti
per cercare l’odore dei cotoni
che sanno ancora d’estate,
avrò voglia di stendermi al sole
a fissare particelle d’azzurro
ascoltando parole fra colpi di vento,
qualcuno dirà che è arrivata di nuovo,
sembra ieri che avevamo i piedi
nell’acqua e i segni del sole  
durati quasi fino a natale.

Diario d’estate

di Roberta Lipparini

Un po’ di acqua
è rimasta nell’orecchio
se scuoto la testa
mi sento un secchio

Un piccolo graffio
sopra la caviglia
quando son caduto
sopra la conchiglia

Granelli di sabbia
anche dentro il naso
e tra le dita dei piedi
ma non ci faccio caso

Il mio sedere è bianco
tutto il resto abbronzato
sembro in costume
anche da spogliato

Guardo il mio corpo
e mi viene da pensare
che sembra proprio il diario
di una vacanza al mare.

Seatown

di Kira A

Mi manca il rumore del mare.

Quando all’alba riposa
nell’azzurro viola del cielo
e
le onde
addormentate
sognano la spiaggia.

Mi manca il rumore che fa
il mare
nelle foglie di via rieti
nel loro stormire
confuso
a tratti
disperato a tratti
soffocato.

Mi mancano i miei passi
sulla strada verso
casa
alle due di
pomeriggio e
l’asfalto
neroardente
deserto
ammutolito.

Mi mancano le grida
dei bambini
sulla riva
stelle e biglie che saettano
guizzi di colore
fotogrammi
liberati.

Mi manca anche l’abbraccio
dell’acqua appena
tiepida
il suo bacio sulle labbra
ogni suono ch’è attutito
stare ferma
consumarli
le carezze sulla schiena
e i piedi che sprofondano
andare giù
con gli occhi aperti
il silenzio liquefatto
ogni cosa in sospensione.

Osservare i polpastrelli
tutto il resto cancellato
non voler più risalire.

Mi hanno detto di Ofelia

di Cristina Bove

“Hai sogni dipinti in verticale
come gli occhi dei gatti
tristi di vissuto a gabbie”

(La strada per il molo)

“Non sono più sicuro del mio nome / e dell’Ofelia / ho perso ogni contatto” dice Amleto nella poesia che dà il nome alla raccolta, richiamando l’attenzione su uno dei temi fondamentali del libro: il timore e al tempo stesso la costante attrazione verso il proprio e l’altrui svanire. La poesia di Cristina vive di due tensioni contrapposte: da un lato la grazia e la levità del ritmo, che evoca aeree partiture d’archi, tendono a sollevarla in volo col rischio di portarla alla sua negazione, al tacere di cui si parla appunto in “Quasi_volo” e “Verso il tacere”. Dall’altro, il ritmo stesso diventa funzionale a svuotare la mente, come nella meditazione, per predisporla ad accogliere la parola poetica in tutta la sua densità. Questi versi mirano a dare un nuovo impatto al nostro quotidiano, scomponendo il continuum di ciascuna esperienza in una serie di dettagli pregnanti che diventano arpioni con cui ancorarci alla realtà per non rischiare di scomparire. Emblematico di questo dualismo è il confronto tra due poesie: “A ripensare” e “Controsogno”. La prima offre una delle molte declinazioni dell’inconsistenza, puntando su ciò che potrebbe essere qualcosa e che non lo è: un pugno di nemmeno sabbia, parole impronunciate, impronte cancellate prima di essere impresse nella rena, e la conclusione, da brivido: “Eppure si può dire / a chi ha sostato stanco alla tua porta / vieni t’offro da bere / e presentare una bottiglia vuota”. “Controsogno”, invece, sostanzia la fenomenologia dell’attesa amorosa con immagini sorprendenti ma al contempo talmente calzanti da apparire necessarie (il chiavistello un nome da girare / lei seduta nel corpo ad aspettare / giunse che l’aria già lo conosceva / col cuore che suonava / più forte della sveglia / a ridestare). Non esente da puntate ironiche (come in “Piccoli omicidi”) e sicura nel giocare con la lingua a tutti i livelli, la poesia di Cristina ricorda i versi geniali di Pasquale Panella, in particolare quelli musicati da Battisti ne L’apparenza, nella misura in cui ci porta a esperire accadimenti, pensieri e sensazioni in maniera sfaccettata e consapevole, come se fossero prove di cui abbiamo bisogno per essere certi di esistere.

Cristina Bove
Mi hanno detto di Ofelia
Edizioni Smasher, 2012