Era caldo d’agosto. Dopo pranzo mio nonno tirava giù le serrande, lasciando che la luce filtrasse densa attraverso i fori, e cominciava, nella penombra, la sua caccia alle mosche. Si aggirava con l’ammazza mosche, quello che sembra una paletta da cucina, fendendo l’aria, inveendo sommessamente contro i voli radenti e burloni delle mosche. Se ne stecchiva una, la lasciava lì, sul pavimento, a guisa di bottino intimidatorio per quelle ancora ronzanti. Le dava tre calcetti con la punta della scarpa, borbottando soddisfatto, e poi di nuovo col naso all’insù.
Nel frattempo mia nonna, appisolata sulla sedia a dondolo, russava, con quello scalpiccio di labbra e fiato sibilante attraverso la dentiera, e col grembiule ancora addosso, adagiato pure lui sulla vestina a pois.
Io stavo fuori, ad asciugarmi i capelli al sole, bagnati dall’ultimo mare, seduta sugli scalini della veranda a testa in giù. Osservavo in questa posizione i passaggi di grosse formiche, quelle nere, lucide, e instancabili, anche nelle ore più cocenti; ingannavo il tempo cercando di bersagliarle di gocce d’acqua dondolando la testa in qua e in là.
Intorno le cicale sembravano impazzite: giungevano dalla pineta i loro stridii a saturare tutta l’aria intorno.
Era una calma tutta estiva, un’attesa, il tempo tremolante.
Passava poi alle 2:00 puntuale un venditore ambulante con la sua Ape Piaggio, nella calura annunciava un miraggio di mozzarelle fresche e provolette fresche, che non sembrava vero. La voce gracchiava le parole in siciliano attraverso l’altoparlante, rimbalzando tra le bouganvillee e i cancelli delle villette.
Mia madre nel frattempo si dondolava all’ombra dei pini, quando il caldo non consentiva di stare in casa, lasciando che l’amaca le segnasse la schiena di rombi ad arlecchino.
Dopo la siesta arrivavano i vicini per la briscola del pomeriggio, arrivavano con lenta compitezza, come per assistere a una funzione, annunciati dallo stridio del cancelletto: lo zio Domenico, lo zio più alto che riesca a ricordare, dinoccolava sorridendo e sgranocchiando biscotti, la zia Peppa, donna bassa e nera che sapeva d’aglio e cipolla, con folte sopracciglia e distintivi baffetti agli angoli della bocca, la zia Concetta, minuta e abbronzatissima in tutte le sue rughe, con ampi cappelli di paglia e foulard profumati alla violetta, seguita dal marito, piccolo e tondetto. Erano tutti zii per noi bimbi, ma non so se effettivamente ci fosse un grado di parentela. Arrivavano tutti per la briscola del pomeriggio, sacro rito dei nonni, in circolo attorno al tavolino basso della veranda e due tazzine di caffè. Non capivo come funzionasse il gioco, ma rimanevo a guardarli: le movenze plateali nel fare volteggiare a farfalla la carta e sbatterla velocemente sul tavolo in segno di vittoria, lo sbucciare con minuzia gli angoli delle carte per farne un ventaglio piccolo e ordinato, e poi ammiccamenti inconsueti, alzate di spalle, ticchettate di dita sul tavolo: un meraviglioso linguaggio segreto tra compari.
Il pomeriggio verteva lentamente al rosso, riempiendo l’aria di gelsomini che, appena il sole calava un po’, sembravano tutti tirare un respiro di sollievo.
E infine la cena, servita di là, alla luce fioca dei faretti del giardino, che sapeva sempre un po’ di Autan e di melone, e tintinnava di cubetti di ghiaccio e trillare di grilli.
Niente di più bello che stendersi poi insieme alla mamma sulla sdraio, in attesa di scorgere un geco quatto quatto vicino al lampione, o a guardare le stelle, per poi scappare su in terrazza per un ultimo saluto al mare, nero, lì, fermo dietro le palme.