Editoriale

L’iconografia della mia infanzia

di Lina Vergara Huilcamán

Se penso alla mia infanzia e ai personaggi che l’hanno abitata, nonostante tutti gli anni trascorsi, restano indelebili quelli strambi, fuori dal comune. Che davano una certa ebbrezza alla giornata. Un’emozione.
Abitavo in un piccolo paese della pianura padana dove c’era un unico semaforo e passavo le mie giornate sul sellino della bicicletta a gironzolare. Scendevo solo per comprarmi un gelato, per indossare i pattini o per salire sulle altalene del parchetto. E mentre pedalavo o sostavo con un piede sul pedale e l’altro per terra, in silenzio osservavo. Proprio come tutti gli altri miei coetanei.
Ricordo la Signora Nana che con il tempo ebbe tutti i capelli bianchi e sempre voluminosi sulla sua enorme e sproporzionata testa. Aveva le gambe corte e storte come tutti i nani, ma non i tratti somatici. Ed era cattiva. Cattiva. Cattiva. Quando spuntava lei all’improvviso da sotto i portici del paese o dal grande ingresso del castello, tutti i bambini scappavano e lei urlava e urlava. Cattiva e amara come il peggiore degli sciroppi per la tosse. Mio fratello quando sapeva di essere nel suo raggio di azione, poche centinaia di metri nel pieno centro del paese, si guardava sempre alle spalle e si avvicinava prudentemente alle gambe di mia madre, non l’ho mai visto rilassarsi, come se da un momento all’altro dovesse spuntare un leone e sbranarlo. Mia madre rideva.
Poi c’era la pazza. Una signora che una bella mattina comparve dal nulla nel parco, probabilmente rilasciata da qualche frenocomio della zona nell’epoca in cui aprirono le porte a tutti gli inoffensivi. Sempre sola. Aveva lunghi capelli morbidi biancogrigi che acconciava in una specie di chignon un po’ malandato ma pretenzioso. Le sue palpebre erano sempre truccate di un azzurro intenso, così azzurro che non ho mai capito di che colore fossero veramente i suoi occhi. Portava una lunga camicia da notte di cotone a fiorellini azzurri o blu e una vestaglia tipo accappatoio rosa. Era sempre così silenziosa e sorridente da risultare quasi invisibile, fino al momento in cui si fermava nel bel mezzo di dove si trovava e divaricava leggermente le gambe… allora la fissavamo tutti e aspettavamo che ricominciasse a muoversi perché volevamo vedere la pozzetta della pipì che lasciava ogni volta.
Il padre delle mie tre vicine di casa era un galeotto. Sorrideva sempre, quando non era in galera, ma sebbene sorridesse e fosse di fatto gentile, aveva una luce diabolica negli occhi e quei capelli neri e lisci e lunghi. Era secco come un chiodo. Scuro di pelle, sembrava sempre sporco. Si narravano storie atroci di delinquenza e violenza carnale sulle figlie con cui giocavo quando lui non era in casa. Loro non dissero mai nulla. Io non chiesi mai.
C’era anche sua moglie. Grassa e con i denti grigi piccoli e scombinati, con i capelli lisci di un castano topo e unti. Brutta come una strega. Grassa come una balena. Dalla sua bocca uscivano solo cattiverie e meschinità inimmaginabili. Lei non era gentile. Urlava sempre. E mentre urlava sputava. Una volta l’ho vista sfracellare a colpi di scopa una nidiata di topolini appena nati.
L. invece aveva avuto la meningite a soli due anni ed era rimasto ritardato. Le sue gengive crescevano senza controllo e ogni tanto gliele tagliavano, si diceva. Io passavo ore e ore a immaginare come sarebbero state se le avessero semplicemente lasciate crescere. Le sue mani erano piene di verruche. Forse sua madre non sapeva che andavano via con il latte dei fichi.
C’era il vecchietto porco che stava sempre al parco e appena poteva allungava la mano sulle cosce delle ragazzine in bicicletta.
C’era la signora della merceria innamorata del prete. Zitella a vita sempre con un sospiro d’amore in gola e un velo di tristezza e di perbenismo cattolico nello sguardo.
C’era il contadino che aveva chiamato i suoi cinque figli Primo, Secondo, Terzo, Quarto e Quinto. Tutti maschi e tutti belli.
Quello che aveva avuto la poliomelite e una delle sue due gambe era minuscola. Quello che aveva invece la mano di plastica. E c’era il figlio della vicina che dicevano fosse ermafrodita. E l’altra vicina che ti parlava solo dalla finestra con la tapparella mezza abbassata perché soffriva di agorafobia.
C’era la ragazzina dagli occhi grandi che ogni tanto iniziavano a girovagare all’impazzata come orbite volanti proprio mentre ti stava parlando e non sapevi più dove guardare. E c’era l’insegnante di ginnastica che si chiamava signorina e aveva il seno ma anche una folta barba e vestiti maschili.
Tutti loro erano i protagonisti delle nostre giornate trascorse a giocare per strada, delle storie che ci scambiavamo mangiando il gelato seduti sulla panchina del parco, quando ancora non c’era la televisione a colori e tantomeno tutti i cartoni animati di oggi.
E adesso, che non ho più il tempo di girare in bicicletta, la sera, sul divano, quando non sono presa da un libro o non c’è un bellissimo film romantico, guardo i programmi di chirurgia estetica, grassi contro magri, adolescenti xxl, una casa piena di rifiuti, un anno per dimagrire cento chili, coppie freak che parlano della loro vita sessuale.