1. VENUS
Agnese era il nome della fornaia, dalle forme sovrabbondanti e dal viso quasi perfettamente circolare. Raccoglieva i capelli color del sidro in un bianco fazzoletto e i suoi denti splendevano candidi quando sorrideva, e sorrideva spesso. Il celeste dei suoi occhi pareva avere un riflesso di strana e affettuosa nostalgia, o forse semplicemente di un’attenzione capace di rimirare al medesimo tempo questo mondo e uno più distante, un mondo che riposa al di là dei confini della veglia. Un biancore finissimo, forse di farina, le ricopriva gli avambracci bene in carne, e le sue mani nerborute impastavano l’acqua e l’avena con movenze prodigiose. Era capace, Agnese, di preparare delle focacce particolari, simili a minuscole pagnotte, ma speziate di sapori difficilmente riconoscibili. Si diceva che avesse dei semi suoi segreti, esotici e introvabili, simili nella forma a quelli di finocchio, ma ricoperti di un tegumento bruno e dal sapore di cumino di prato; si vociferava che questi semi, impastati nelle sue focacce, avessero effetti prodigiosi sulla libido, tanto che i più colti li paragonavano alle famigerate mosche spagnole che, una volta essiccate e triturate, venivano unite alla pasta per i biscotti al cioccolato che i libertini consumavano durante le loro orge.
Stupiva il fatto che simili dicerie fossero così diffuse ed era curioso l’ardore che tutti parevano nutrire per un’umile e paffuta fornaia. Che fossero le mani, ch’ella immergeva forti nell’impasto come nel simulacro di un corpo alla sua mercé; che fosse il candore della sua pelle ricoperta dalla polvere di grano, che prometteva un contatto vellutato; o che fossero proprio le sue forme generose, i seni allungati e orgogliosi; qualunque fosse la ragione, non v’erano dubbi che gli uomini del villaggio mostrassero una particolare sollecitudine nel recarsi al forno dopo la messa. Per una forma di timore o di reverenza, vigeva però un’inusitata morigeratezza, e nessuno di quei maschi varcava mai l’immateriale confine del contegno cortese: pareva quasi che fossero soddisfatti nel bearsi della sola vicinanza della fanciulla, senza osare nulla di sconveniente, relegando qualsiasi capriccio alle fantasie della sera quando, messi a letto i marmocchi, si sarebbero dedicati con le consorti alla logora e risaputa copula domenicale.
Giona, il garzone del mugnaio, che giornalmente trasportava i sacchi dalla mola al forno, fu a quanto si dice l’unico a giacere con Agnese. Non se ne vantò, a onor del vero, ma si venne a sapere comunque. La gente narrava di un amplesso furioso fra cesti e panieri, amplesso che con il fluire del tempo e dei racconti si andò arricchendo di dettagli fino a raggiungere proporzioni mitiche: la carne fluttuante di Agnese fra gli sbuffi di farina fumante dai corbelli, i suoi capelli per una volta sciolti che frustavano l’aria nei soprassalti, i seni bianchi impegnati in orbite circolari che sferzavano il petto di Giona, perso finalmente nel ventre della balena; l’odore del pane, che è odore di vita, impregnava le carni della fornaia quasi fosse anch’ella un’enorme pagnotta pronta da addentare, senza che quest’aroma terreno nulla togliesse alla grazia della sua divina abbondanza. Stremato, al culmine della perdita del sé e raggiante del fosforo del piacere, il garzone Giona aveva liberato i suoi succhi sul filoncino aperto a metà che la ragazza ridendo gli porgeva: e si diceva infine che quel pane fosse talmente intriso della gioia della carne da produrre nelle femmine che l’avessero assaggiato una sicura e inevitabile gravidanza.
2. VENATOR
Mentre fuori la neve fischiava in violenti mulinelli sui campi scuri e deserti, io, fermatomi alla locanda per la notte, consumai il mio pasto (un’umile porzione di zuppa di ceci insaporiti con sedano e alloro) nella scarna e parca stanza che fungeva da camera da pranzo. Dopo cena, accesa la pipa di fronte al focolare, parlai con il Cacciatore.
“La vidi una notte di marzo, la luna era fredda e lucente come un osso lanciato in cielo. La vidi, di questo almeno son certo. Stava là, tra il fogliame nero e fitto, ed era nuda. Aveva un corpo di bambina, e gli occhi di una fiera. Era la preda perfetta, tutto ciò che un uomo può desiderare. La sua chioma fulva ricadeva sui seni puntuti come un mantello, la malia delle cosce frementi e pronte a scattare scaldò il mio sangue. Il suo sesso immaturo, appena sfumato d’un acerbo vello più chiaro, aveva, potrei giurarlo, un profumo pungente di carne speziata, e il suo sguardo conosceva e si accordava intimamente ai movimenti della natura. Quello sguardo, di un verde prodigioso, rimase fisso nei miei occhi lungamente, prima che lei svanisse nella macchia, senza che la mia mano potesse raggiungere la fiasca con la polvere. Non posso dire cosa accadde, quale argine si ruppe in me, quale marea sommerse la mia mente. Certo è che, da quell’incontro, ogni altro trofeo perse qualunque attrattiva ai miei occhi. Perché, vedete, questa preda non è una preda. Fu lei a catturarmi, non io. Da allora mi aggiro per la selva, prigioniero del suo ricordo, e so che soltanto uccidendola potrò tornare libero. Quali segreti saprà insegnarmi, nell’istante della carneficina? La sua pelle sottile dispenserà odori di cardamomo e arancio e ginepro, le sue labbra fremeranno come un rodoreto al vento, mentre mi accingerò al sacrificio? Mi farà dono ancora una volta di quello sguardo elettrico, ora che veloce scende la lama e ogni lusinga sta per essere disfatta?
E al tempo stesso, se mai la raggiungessi, immolerei ciò che più amo, la ragione che mi mantiene in vita, il mio fine ultimo. Sono trent’anni, mio buon viaggiatore, trent’anni che seguo le sue tracce nel folto del bosco. Talvolta ne scorgo una caviglia sfuggente fra gli arbusti, o un piccolo riflesso della pelle bruna, tra le foglie, ma quando la mia spingarda ha sparato, e il fumo s’è alzato, lei non c’è più. Non vedo altro che lei, in ogni dove, eppure il suo volto mi sfugge, la sua concretezza m’è ignota. Un giorno, forse, un giorno le mie cartucce la fermeranno. La scoprirò lì, distesa al suolo, ferita e inerme, i suoi occhi brucianti e terribili mentre il petto si alza e si abbassa con l’ansimo della bestia braccata che non ha più via di fuga: appena avrò vibrato la coltellata, la foresta intera urlerà di dolore. E se anche non urlerà, io, nel suo corpo che si fa più algido di secondo in secondo, in una caduta rapida e inesorabile, io sarò annientato. Niente più ricerca, ma dolore e pace”.
Il Cacciatore tacque infine, terminò il suo brandy e si addormentò sulla poltrona, il fuoco si spense, io mi attardai ancora un poco; l’oste venne a pulire con un cencio il nostro desco e, ammiccando, indicò l’uomo assopito. “Ecco lì, l’ossessione; mi capite? La dipendenza. Non può farne a meno. Tutta la sua vita all’inseguimento di una ninfa da adorare, e infine uccidere. Una ninfa che neppure esiste”.
L’oste sputò sul tavolo per scrostare una macchia, io mi voltai verso la finestra.
Mi parve di scorgere il bagliore d’un paio di occhi smeraldini, dietro al vetro, attraverso la brina. Infine, mi ritirai nella mia stanza.
3. VENERATOR
Ad ogni scudisciata il bel culo prendeva vita e colore, eppure stranamente pareva divenire più lucido. Lo frusterò fino a che mi ci potrò specchiare, pensava lui, e non immaginava che proprio quella era la sconfitta, perché la mollezza della femmina è in verità la sua forza. Specchi sono le donne, e ci illudiamo che il segreto sia nascosto in loro. Ma il loro mistero sta dentro di noi, ed è il nostro volto che scorgiamo nel riflesso – e ancora lo specchio rimane intangibile, nascosto, irraggiungibile. Vogliamo attraversarlo, romperlo, scoprire cosa c’è dall’altra parte. Non poteva saperlo, ma era questo desiderio che guidava la sua mano.
Legata per i polsi e le caviglie alla parete, in posizione eretta, la callipigia offriva i glutei arrossati alla sua frusta. Eppure sorrideva, a ogni sferzata sorrideva, poiché qualunque donna venga frustata è conscia di divenire una dea. E questo stesso sorriso, questa misteriosa alchimia in grado di trasformare il dolore in piacere, era ciò che lo condannava all’impotenza.
Se pure in quel gioco, inizialmente, v’era stato qualcosa di sensuale, ora la carne aveva ceduto il passo a un duello metafisico, ancestrale. Negli occhi di lui, la perfezione di quelle forme andava punita, era scandalo e affronto; di contro, tutto in lei emanava la consapevolezza di non poter essere violata. Accanisciti pure, battimi, spiega le tue verghe, ancora, solca le mie bianche carni di orme vermiglie, s’imprima pure lo stigma d’un mortale sul corpo inaccessibile! Fendi, apri, strappa, e fruga fra le mie viscere alla ricerca del segreto! Ancora non potrai possedermi.
Di colpo s’infranse ogni illusione, cadde la mano dell’uomo e piangendo, nella resa, egli accostò la guancia umida al roseo gluteo che qualche stilla di sangue impreziosiva; bevve egli quelle perle rubizze a brevi leccate, come un lattante. Le mani della dea, da sole per incanto liberatesi dai legacci, gli accarezzarono il capo con compassione. Ella premette infine il pube dorato sul volto di lui, e asciugò le sue lacrime.