“Allora mi sollevo incorporea dal buio e come un parassita senza fissa dimora mi aggrappo alla forma della mia identità e alla sua posizione nello spazio e nel tempo.”
Janet Frame
Da soli non riusciamo a stare, abbiamo tutti bisogno di una guida, di un conforto, di qualcuno che non ci abbandonerà. Reale o ideale, presente o assente, non importa, abbiamo tutti bisogno di un angelo. Ma un angelo non convalidato dal timbro ufficiale della religione può essere considerato un segno di follia, in particolare di schizofrenia. L’angelo che cerchiamo può essere una creatura ideale e amata, un’assenza contemplata con tenerezza oppure ciò di cui parla l’indimenticabile Agrado di Almodóvar: l’idea che abbiamo sognato di noi stessi. In un fratello lontano, specchio reale o immaginario di sé, Antonella Troisi cerca la propria origine da cui ripartire. Seduta a tavola con le figlie, Tina Caramanico contempla il simulacro della figlia che ha perduto o a cui lei stessa ha negato la vita. La malinconica figura ritratta da Rita Galbucci attende la propria sognata identità per poi tornare ai riti del quotidiano.
E uno stormo di angeli sorprende Francesca Serragnoli una mattina: sono i matti, con il loro sguardo pronto allo stupore come quello dei bambini, che se ne vanno dopo averle regalato una nuova consapevolezza.
A tavola la sera
tra le mie figlie
mentre riempio loro il piatto
stai tu che non ci sei.
A chi somiglieresti,
quali talenti
e tormenti
avresti portato al mondo
io non so.
Non lo so perché non posso vederti,
ti intuisco
ma non posso sentirti.
Eppure, figlia che non ci sei
davanti alla tua minestra che non c’è
la sera a tavola
ci fai sempre una domanda,
la stessa:
voi sì, io no
perché?
Il mio volto
lontano
o è il tuo,
fratello,
che si allontana
ancora e più?
Resta con me
bagliore di un ricordo –
non svanire,
resta –
e avrò un cordone
per riannodarmi.
Non dà a vedere e finge solo
di guardare la fine della via buia
nel tardo pomeriggio
con la scusa di aspettare
chi ancora tarda a venire.
Poggia la guancia rovente
come da piccola al vetro
ghiacciata la finestra non mente
col suo brivido che accappona.
Caldo e freddo luce e buio
nel mezzo il tempo di una giravolta
un tempo di attesa indefinito tempo
raccolto a mani la bozza di un sorriso
donato in tavola con la minestra.
Questa mattina ho visto i matti
scendere dal pulmino bianco
accompagnati come bambini in gita
una donna con la berretta
un signore con il riporto pettinato
che paura quei visi!
S’illuminano per un niente
presi per mano hanno
lo sguardo dei figli
puntano il dito su tutto
sole d’ottobre che scende
su donne senza trucco
risate acute come spade
li ho salutati come si salutano i bambini
facevano ciao con la mano
mani che vedo dietro di me
salire nel cielo come quaglie
e svanire lasciandomi
la prima amicizia del mondo che è l’aria.
(Il rubino del martedì, Raffaelli Editore 2010)