Un incontro, nel viaggio in treno tra Roma e Bologna. Teresa.
Alta un metro e ottanta, circa novanta chilogrammi di femminilità calabrese. Piena di braccialetti colorati, con vestiti giovanili e aderenti. Lunghi capelli neri. Trucco abbondante a mettere in risalto i suoi lineamenti forti di donna del sud. 45 anni circa. Sono salita sul treno e c’era un gran trambusto causato da tre persone che sembravano non riuscire a sistemare le tre quattro grandi valigie che si portavano appresso. Un uomo e due donne: due sorelle. Finalmente sistemano tutto, la gente si tranquillizza, riesce a passare, a sistemarsi nei propri posti. Il treno sta per partire. L’uomo saluta e scende. Le due sorelle si siedono. Parte il treno. Una si alza e se ne va in giro canterellando. L’altra resta seduta, ride e dice a chiunque la stia ascoltando o a se stessa: “Non riesce a stare ferma un secondo” e continua a sorridere. Si sente cantare lontano, sempre più lontano… posso immaginarla che si allontana un vagone dopo l’altro. La sorella inizia a inquietarsi. Chiede alla signora di fianco di lasciarla passare e va a cercare l’altra che ormai non si sente più. Dopo pochi minuti tornano al loro posto.
Teresa, la canterina, indossa un paio di occhiali da sole, grandi e neri.
Teresa sembra felice. E canta. “Io devo difendermi… Io non so se ce la faròòòòò.” La sorella le dice di fare silenzio, che dà fastidio. “Teresa mettiti le cuffie.” E Teresa risponde: “Guarda che dopo è peggio. Guarda che dopo canto… ” e ride. “Teresa mettiti le cuffie. Teresa!” E Teresa si mette le cuffie e come promesso canta, a squarciagola stavolta. La voce stonata le trema.
Mi concentro sulle parole della canzone, strana canzone, sempre la stessa melodia, mai sentita prima.
Dice cose sensate, la canzone sembra dar voce ai suoi pensieri, pensieri che hanno un senso.
La sorella è stanca, ma le vuole bene. Si vede che le vuole bene. L’accarezza con gli occhi, con il dolce sorriso che le affiora sulle labbra ogni volta che la guarda. Vorrebbe arrabbiarsi per quel trambusto che sembra infastidire tutti, ma non ce la fa. “Questi posti sono piccoli” esclama Teresa “non sono per una della mia stazza.”
E torna ad alzarsi, torna a percorrere il treno in tutta la sua lunghezza, un vagone dopo l’altro, e la voce si allontana di nuovo. Finché non si sente più. A quel punto la sorella si rialza.
“Mi scusi Signora, vorrei passare…” e va a riprenderla. “Dove vaiii…” è tornata Teresa con il suo canto “Dove vaiiii… ”  “Dove seiii… dove seiiii… ”
Mi lascio cullare dal treno mentre la ascolto, chiudo gli occhi e mi lascio baciare dal sole. Teresa non mi dà fastidio. Mi piace ascoltarla. Mi piace averla di fianco. Mi piace che esista in questo viaggio che senza di lei sarebbe stato noioso. Canta le sue verità, a chi di noi vuole ascoltarle. E se nessuno vuole ascoltarle non importa, lei le canta lo stesso.
È stufa del silenzio. È stufa di stare zitta. Di mentire tutti i giorni ingoiando la sua persona.
“E se fosse per nostalgia… che io voglio andare via…Voglio tornare a casa mia… ”
“E no!” smette di cantare “Ero morta. Adesso posso parlare. Adesso sono felice.”
Passa il capotreno a controllare i biglietti. A controllare i biglietti e a ristabilire l’ordine. Ci sono stati dei reclami.  “I passeggeri si lamentano.” “Amore mio quanto sei bello… ” risponde Teresa.
La sorella le sussurra di tacere. “E chi se ne fotte se c’è la suora” grida Teresa. “Beata sua moglie che se lo scopa” continua. “Me lo dai un bacetto?”
“Ma Signora, io sto lavorando” prova a rispondere imbarazzato il capotreno.
“E chissenefrega” risponde Teresa, “per me fai gli straordinari. La vuoi una limonata? Guarda che sono brava.”
“Teresa… è finita” dice la sorella.
E se la portano via, la sorella la segue preoccupata. Il capotreno la porta laddove non darà fastidio a nessuno. Il treno si lamenta. Adesso c’è silenzio. È tornata la normalità, quella beata normalità in cui tutti amano vivere e nella quale tutti possono continuare a raccontarsi le loro bugie. Mi mancano le verità strillate a squarciagola di Teresa.  Teresa, dove ti hanno portato?
“Voglio fare l’amore. Voglio fare scintille.” È tornata Teresa.
“Un esaurimento nervoso” dice la sorella a chi la vuole ascoltare. Poi guarda la suora, che da quando siamo partiti ha fatto finta di non vedere e di non sentire. Una donna grassa, scura di pelle, sudata e che profuma di sudore intenso. “Sorella, le dica lei qualcosa” insiste. Ma la suora si nega, sussurra paroline di scuse, paroline dolci ma che in fondo dicono lasciami stare.
“Siamo romantici… Siamo romantici… ” canta Teresa “Semo di Roma e andiamo a Verona… ”
“Sorella, può fare qualcosa. La prego” insiste la sorella di Teresa. “Può parlarle un attimo? Altrimenti facciamo tutto il viaggio così… ” E la suora si alza dal suo posto, sposta il suo grosso corpo vestito di grigio e si siede di fronte a Teresa che non ha più nessuno seduto vicino, le signore di fianco a lei hanno preferito cambiare posto.
Teresa parla in inglese, due frasi imparate a memoria e poi in francese, e poi in tedesco. Frasi buttate lì. La sorella ride. “Parla tante lingue” dice ancora per chi vuole ascoltare.
“Che puzza!” esclama Teresa “Che puzza!” E la suora la guarda e le chiede: “Do you speak English?”. “Yes” risponde Teresa, “I love you toooooo”, “Io sò beautifull.”
La suora continua a sussurrarle frasette in inglese. “Parlare italiano sorella lei?” le chiede Teresa “Io non so parlare inglese sorella, non capisco… ”
“Signore e Signori” dice Teresa, “siete pregati di stare zitti!”
“Come si chiama sorella?” chiede Teresa alla suora. “Alfonsa?... Sei una grande stronza. Pardon sorella, excusez-moi.” E la suora le sussurra che il silenzio è bello, le parla della pace. Le suore non urlano, distribuiscono le loro parole d’amore dolcemente. Parlano direttamente al cuore delle povere anime in pena che devono salvare.
“Mi piace la gente dolce” dice Teresa, “come la pasticceria che ci sono i dolci. Io quando ero piccola mi volevo fare suora, ma sarei stata una suora cornuta. Facevo l’amore con i preti a quindici anni. Ero bella a quindici anni. Sono stata in una clinica di suore. Bravissime. Villa Portuense a Roma. Mi amavano. Scherzo sempre quando sto bene sorella. Quando sto male sembro un vegetale. Sento tanto sonno sorella, ce l’ha una pasticchetta? Ho una malattia alle orecchie sorella, si chiama acufene, per questo porto le cuffiette, per non sentire il ronzio, sorella. Alleluiaaaa… alleluiaaaa. Non ci indurre in tentazione.”
La suora cerca di parlarle, di farle togliere le cuffie, cerca di convincerla a fare silenzio. Ma Teresa canta, prega, si muove, la guarda fissa negli occhi togliendosi gli occhiali.
“La mia sorellina mi è venuta a prendere che ero paralizzata” dice.  E poi chiede: “E come si prega?” “AvemariamadrediDio” iniziano tutte e tre insieme.
“Quanto è dolce Suor Alfonsa. Pensavo che le davo fastidio prima… E io apposta la facevo arrabbiare. Quanto è dolce Suor Alfonsa. Ho avuto un’apparizione, sono collassata e mi è comparso Padre Pio. Dicono che non capita a tutti. Sono stata fortunata. Era tutto pieno di fiori, di uccellini. Io volevo che mi parlasse, ma lui sorrideva e basta. Sorride e basta, non dice mai un cazzo. Io voglio che mi parli. Io non voglio stare in questo mondo di crudeli. Voglio morire. No che la vita è tanto bella. Come il culo di una padella. Io l’ho visto il diavolo Suor Alfonsa. Però mi ha lasciato per soffrire. Mi poteva far morire. Mi dicono di non raccontarlo. Sennò mi prendono per pazza. Ma io ci sono nata nella culla pazza. Quanto erano brave le suore della clinica, Suor Alfonsa, e come cucinavano bene. Mi piace mangiare.” Suor Alfonsa continua nella sua missione. Non sembra convinta, ma continua. Non può deludere l’intero vagone che è concentrato su di loro, che curioso guarda come farà Suor Alfonsa a farla tacere, a portarla sulla retta via.
Teresa non si è mai tolta le cuffie. Continua a cantare. A parlare. A essere Teresa.
“Quanto erano brave le suore della clinica Suor Alfonsa. Poi ne sono arrivate due nuove. E ci davano le pastiglie per dormire. Mi facevano le punture. E mi violentavano. Mi davano i calci nella schiena. Nelle tette. Mi facevano le punture nella coscia. Erano lesbiche. Suor Alfonsa. Sei proprio una bella stronza.”
“Ma com’è possibile che succedano queste cose?” chiede la sorella a Suor Alfonsa mentre tutto il vagone resta con il fiato in sospeso per ascoltare la risposta. “Mi dica lei cosa ne pensa Suor Alfonsa” insiste la sorella. Ma Suor Alfonsa preferisce parlare d’altro.
“Se ho visto la Cappella Sistina Suor Alfonsa? Sì, l’ho vista. Capotrenoooo la tua di cappella voglio vedere. E la cupola del Michelangelo? Capotrenoooo voglio montare sulla tua cupola. Sul tuo cupolone. Capotreno!!! Scherzo sempre quando sto bene sorella. Quando sto male sembro un vegetale. Volevo morire Suor Alfonsa.”
Sono arrivata a Bologna. A malincuore sono scesa lasciando la nostra Teresa sul treno. Suor Alfonsa è scesa dal treno anche lei, ancora più sudata di quando era salita.
Quando sono scesa il treno non era più triste. Le persone si erano abituate a Teresa. Ridevano libere delle sue frasi e dei testi delle sue canzoni. Dell’imbarazzo del capotreno che non sarebbe passato più da quel vagone. Perché Teresa era la verità taciuta, di tutti noi che abbiamo viaggiato con lei. La voce di tutti i nostri piccoli segreti. Di tutti i nostri piccoli dolori. Delle storie che ognuno di noi ha imparato a nascondere. A non raccontare per non mettere in imbarazzo gli altri. Teresa ha taciuto anche lei, chissà per quanti anni, fino a scoppiare.
Teresa che senza occhiali ha lo sguardo un po’ perso dagli psicofarmaci, ma ancora intenso, ancora in grado di guardare dentro a chi le sta di fronte. E che con la sua voce tremolante trasforma le sue verità in canzoni a volte raccapriccianti, a volte allegre, come le nostre vite.
Ma lei è pazza. Ha avuto l’esaurimento nervoso. Non bisogna darle retta.