foto di Lina Vergara Huilcamán

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FRENOCOMIO SAN LAZZARO DI REGGIO EMILIA
Nel mezzo della Pianura Padana, appena fuori da Reggio Emilia, si affaccia sulla via Emilia quello che resta del FRENOCOMIO SAN LAZZARO, una piccola città esistita per secoli, dedita alla guarigione degli alienati. Un tempo diviso da ampi muri di cinta dal normale mondo, era un insieme di edifici, padiglioni, che contenevano e curavano le diverse malattie mentali degli alienati. Aveva estesi campi verdi e fertili alle sue spalle, destinati all’attività agricola che era solo una delle tante attività condotte dagli stessi alienati e che contribuivano al mantenimento dell’intero complesso. Un lebbrosario nel 1217, successivamente ospizio per i poveri e mendicanti fino ad assumere nel 1536 la sua veste ufficiale di frenocomio, manicomio per alienati, malati di mente, i pazzi, ma anche invalidi, decrepiti, storpi, epilettici, sordomuti, ciechi, paralitici che nuocevano tanto al decoro quanto all’apparente regolare funzionamento della società.* Ma solo nel 1821, quando il Duca Francesco IV d’Este nominò Antonio Galloni Direttore dello “Stabilimento Generale delle Case de’ Pazzi degli Stati Estensi”, con il compito di riordinare l’istituto e destinarlo alla sola cura dei malati di mente, iniziò la grande restaurazione interamente finanziata dal Duca, che prese trent’anni e che prevedeva la razionalizzazione degli spazi, la separazione tra i sessi e la suddivisione dei pazienti in base alle tipologie di malattia e classe sociale. Galloni iniziò inoltre l’umanizzazione nel trattamento dei malati: la terapia morale, vera e propria rieducazione del malato attraverso una rigida disciplina e molto lavoro, dieta sana, passeggiate e laboratori espressivi. Il San Lazzaro divenne così una piccola colonia autosufficiente, un’istituzione moderna e centro di ricerca all’avanguardia che partecipava a esposizioni nazionali e internazionali arrivando a vincere nel 1900 la medaglia d’oro del Salone Universale di Parigi con una mostra fotografica custodita in un bellissimo album rosso stampato a lettere d’oro nell’archivio della Biblioteca Scientifica Carlo Livi di Reggio Emilia, ancora oggi consultabile previa richiesta e autorizzazione. Sfogliando l’album si può vedere come fosse il frenocomio: le camerate, i saloni di prima, seconda e terza classe, le aule di scuola, i laboratori di disegno, il lavoro nei campi, la macelleria, la cucina, le sale di studio dei professori, la cranioteca.  Un piccolo enorme mondo all’interno di quel grosso muro di cinta, simbolo di un’esclusione durata secoli, abbattuto nel 1978, anno della legge 180 che decretava la chiusura degli ospedali psichiatrici.
Il San Lazzaro venne chiuso nel 1994, dopo la progressiva dimissione dei ricoverati.
*”Volti e corpi di ordinaria follia“, Sandro Parmeggiani – Il volto della follia, Skira.

PADIGLIONE LOMBROSO
Visitabile tutti i sabati alle ore 16.30, è l’unico padiglione dell’Istituto Neuropsichiatrico San Lazzaro ancora visibile. Restaurato, è una bella mostra di quello che era un frenocomio, una mostra silenziosa nei cui spazi si può immaginare quello che è stata la vita al suo interno. Mura silenziose dai quieti colori pastello e spazi oggi vuoti che sussurrano storie incredibili a chi le vuole ascoltare.
Era il padiglione destinato ai pazzi criminali, quelli pericolosi.
Tra i suoi reclusi anche il pittore Antonio Ligabue.

Cesare Lombroso (1835 – 1909)
Psichiatra, antropologo, professore universitario di medicina legale e igiene pubblica, di psichiatria e
di clinica psichiatrica e infine di antropologia criminale. Cercò di stabilire una serie di collegamenti tra le anomalie fisiche e psicosomatiche dell’individuo e la degenerazione morale del delinquente, giungendo a classificare i criminali secondo una rigida tipologia antropologica e alla teorizzazione delle tare ereditarie congenite quale prima causa del delitto.

“…mi facevano stendere sul lettino poi mi facevano l’iniezione e poi la scossa…
era come morire…
non so quante volte sono morto… ”

“… Sai, tutti questi reparti hanno un odore che non ti dimentichi, un misto di pipì, muffa e saliva fermentata…
Il mio letto è inchiodato a terra, la mia bocca è fissata alla spalliera da un lenzuolo bagnato.
Ogni tanto mi slegano per pulire e mi tengono a distanza con un punteruolo.
La maschera sulla bocca m’impedisce anche di sputare.
Mordere non potrei perché non ho più denti… ”

“… Dopo non si ricorda più niente, non si conosce più nessuno…
chissà quanti pensieri ho lasciato là… ”

L’esperienza di Reggio Emilia, Testimonianze di lotta popolare contro il manicomio.
Tutte le testimonianze qui pubblicate sono state raccolte da Piero Colacicchi
www.ausl.re.it/biblioteca/html/2000.html