La veglia e il saluto alla madre di un partigiano

di Sonia Maria Luce Possentini

Avevo sette anni,  mese più mese meno.
Erano gli anni settanta. Era novembre, me lo ricordo bene.
Ci fu un trambusto in casa.  Un parlottare sottovoce.
Un silenzio pieno di tormento.
La cena servita tardi.
La mamma e il papà che non rincasavano.
Cercavo di giocare con mia sorella, ma ero in attesa.
Sentivo dentro la pancia che era successo qualcosa.
Qualcosa di brutto.
Morì la mia bisnonna che io chiamavo nonna.
Una donna, a sentire le grida della gente, generosa, intelligente.
Nilde, si chiamava.
Aveva cucito la bandiera sulla bara di mio zio, martire partigiano.
Aveva cucito le mie calze. Aveva cucito i miei vestiti.
Ricamato le tende della casa di zia. Lavorato ai ferri i miei maglioni.
I miei colletti bianchi per la scuola. Pettinato i miei capelli lunghi.
La ricordo a tratti. Ma intenta al lavoro. Sempre.
Malinconica.
Aveva perso due figli. Allevato mio padre. Tenace.
Mi vestirono “dalla festa”, come si usa dire.
“A modo”, con un vestitino (il solito per le grandi occasioni)
di velluto blu notte, come diceva mia madre.
Un colletto di pizzo bianco. I capelli raccolti e mi portarono dalla nonna.
Ricordo bene quel giorno. Pioveva.
La nebbia pesante della pianura era densa.
Il non colore che rimaneva fermo nell’aria era un punto interrogativo.
Dobbiamo vegliare la nonna, devi salutare per l’ultima volta la nonna. Mi dissero.
Furono queste le parole, cercavo di carpirne il senso che non conoscevo.
Ma tutto mi fu chiaro mentre salivo le scale della grande casa di zia.
Un odore, di qualcosa che se ne va. Di qualcosa che non c’è più.
Un odore di morte.
Poi mentre salivo le scale sentivo i pianti sommessi e, scalino dopo scalino, i pianti che diventavano grida.
Le grida di mia zia.
La sua corsa da una stanza all’altra tra gli armadi e gli scatoloni.
Rovistava e piangeva. Piangeva e gridava.
Poi riponeva con grazia le lettere, i soldi e le fotografie dentro la cassa della nonna.
Le serviranno, diceva. Le chiederanno di pagare, diceva.
E poi parole. Tante.
Ma non è morta? Domandavo ingenuamente a mia madre.
Sì, mi rispondeva con dolcezza.
Piangeva. Gridava: “Guarda, piove, non verrà nessuno ad accompagnarti… ”.
Un dolore che registrai nella mia testa come fosse qualcosa che non poteva più essere consolato. Piangevano tutti.
Ma lei piangeva come se le avessero strappato il cuore.
Corsi sul terrazzo della casa e, come una fotografia ormai indelebile per me, vidi la fila interminabile di persone vestite di nero con gli ombrelli neri aperti e le bandiere rosse che sventolavano in quell’aria ferma.
E la musica che arrivava dappertutto e che parlava di un fiore….
Quel fiore che ho poi imparato a conoscere.
Rosso, nero e bianco. Questo è il ricordo più vivo.
Quello che ancora mi appartiene.
C’era tanta gente, mia zia si era sbagliata.
Tanta gente a salutarla. Tanta gente nella nebbia e nella pioggia.
Tanta gente che cantava piano le parole del fiore.
Cantava in quel tragitto.
Un tragitto bianco di nebbia, nero di pensiero e rosso di passione.