“Una seconda mamma” è una delle tante definizioni che si usa applicare alla maestra elementare, un’etichetta che parte dall’assunto che la madre sia necessariamente una figura affettuosa e protettiva. Ma non sempre queste due donne così fondamentali hanno una valenza positiva, come testimoniano i versi di Luigi Tenco, che dalla maestra apprende la prima e per lui indimenticabile lezione di ipocrisia, e come ribadisce la poesia di Massimiliano Chiamenti, dolorosissima evocazione di una madre insensibile che è anche insegnante e con sadico piacere procura agli alunni lo stesso incancellabile dolore che infligge al figlio. Nei versi visionari di Raffaele Ferrario, l’insegnante snatura e avvilisce l’oggetto stesso del suo lavoro, la poesia, la filosofia e la storia in primis, divenendo il servo patetico a cui un profetico bambino dovrà ribellarsi. Uno spiraglio di partecipe tenerezza si apre nella poesia di Federica Galetto che offre il ritratto sarcastico di una maestra “impagliata” tenuta insieme dai cliché che la letteratura le ha irrimediabilmente affibbiato ma che nondimeno tenta di spiegare la vita ai bambini e lancia dalla finestra sguardi protesi verso una fuga possibile. La stessa fuga vagheggiata da Fiammetta Campione, che si ricorda bambina intenta a cercare gli occhi della donna dietro la cattedra, immaginandola sua pari e complice in mezzo agli altri alunni che sembrano leoni in gabbia. Con la vivacità che deriva dalla scelta del romanesco, Alessandro Galoppi affresca una divertente adunata di ex compagni di scuola in cui la maestra è una presenza-assenza evocata con rispetto e nostalgia. E il cerchio si chiude con la poesia di Marino Monti, quasi una foto d’altri tempi in cui la maestra torna a essere una madre che nel cortile della scuola raduna i suoi molti figli in amorosa apprensione.
“Cara maestra,
un giorno m’insegnavi
che a questo mondo noi
noi siamo tutti uguali.
Ma quando entrava in classe il direttore
tu ci facevi alzare tutti in piedi,
e quando entrava in classe il bidello
ci permettevi di restar seduti.”
’Na rosa è sempre rosa,
pure si passa er tempo,
te s’apre orgojosa,
t’abbaja come un lampo.
Così ce organizzamo
’na sera appassionata,
’na gran Rimpatriata
e tutti se acchittamo
pe’ accarezzà ’na rosa
che so’ i ricordi nostri,
de un’epoca giocosa
che nun ce renne tristi.
“Ma sei te? Nun sei cambiata…”
“Che stai a dì? Me so’ invecchiata!”
’ste battute da copione
so’ germoji d’emozione…
c’è chi cita er campo scola,
co’ quer diario che ’amo fatto
e… sorpresa cor gran botto:
l’ha portato… un groppo in gola…
Fra scherzetti e primi amori
e discorsi semiseri,
’na presenza forte avverto,
nun ce sta ma dà conforto:
’na Maestra un po’ severa,
che ricordo assai de core,
piglio forte, un poco austera,
lavorava con amore.
Quante lagrime ha asciugato
su ’sta faccia da pischello
e si ora so’ cresciuto
io lo devo pure a quello…
’sta serata sta finendo
come un film appassionato
e la luna sta filmando
un finale accalorato,
co’ li baci e li saluti
e la voja de vedesse
n’antra vorta pe’ sentisse
dei bambini un po’ cresciuti.
Pijo er viale de ritorno,
nun me vorto a vedè l’artri,
er silenzio fa contorno…
… nostargia che sveja i morti…
De ’sta sera appassionata
quarche cosa qui me resta:
’na simpatica brigata
e er ricordo d’ ‘a Maestra…
Maestra dipinta
restia ad attecchire ai segni
come se lavagna e colletto
fossero
null’altro che pizzo indistinto
e rigido
di dolcezza ineccepibile
Maestra intera come gesso
sotto gonne piane
e stupide rosse borsette
grinzite come le mani
asciutte nel bianco d’un gesto
Maestra insieme al corso d’acqua
degli occhi precisi sul foglio
avevi note di melanconia
guardando fuori spiavi i tigli
il sudore era morto
le tue ciglia s’inchiodavano
asciutte come erba d’estate
e noi non avevamo che te
a spiegarci la vita fra i picchi
dell’insidia e della gioia
di stare
impettiti sui tuoi crocchi
di capelli neri lucenti
che intonsi ridevano
ai passeri
volati via
sul filo della campana
(impromptu)
timida e garbata
– in quella gabbia di leoni –
varcavi la soglia di un mondo bambino
timorosa cercavo l’incontro
coi tuoi occhi
– pura speranza di gemellaggio –
sentivo affinità di anime
o forse un bisogno di complicità
con occhi muti e schietti
ti sorridevo
ripetendo la consueta esortazione:
perché non fuggiamo via…
Andavi, come una chioccia,
a cercar figli perduti.
E t’inquietavi
per chi s’era perso.
Le mani all’adunata
battevi e in fila, tutti
marciando (quale gioia!),
con canto quasi,
avevi la guida del plotone.
E sembravi, ai miei occhi,
una madre e tornavi
seguita, saltellando,
dal biondo fanciullino,
a guardare nel giardino
chi c’era ancora che non ci fosse.
per quarantadue anni
non ho avuto la forza
di scrivere di te
anche se in realtà
scrivevo e pensavo sempre alludendo a te
ora per la prima volta invece
scrivo consapevolmente di te
in uno di questi miei libri di poesia
che non hai mai voluto leggere
per cui non leggerai mai queste righe
e vado giù libero di getto
sì, ne scrivo solo ora che mi hai abbandonato
che hai fatto di me un reietto
ora che ho capito che non posso fidarmi neppure di te
abbandonato malato impoverito e solo
in questo agosto infernale
e che mio padre aveva ragione
a evitare di parlarmi di te
a dire che eri dura come tua madre e la madre di tua madre
a dire che io ero come amleto
combattuto tra la voglia di entrare nel mondo
e impigliato nei tuoi lacci
ora anche tu
ti sei allineata
alla malvagità del mondo
mi hai sempre fatto paura
in realtà
ricordo le tue punizioni esemplari
ai tuoi alunni
costretti da te a braccia immobili
dietro la schiena
sì ti piaceva immobilizzarli
vederli immobili e tristi a testa bassa
davanti a te
così hai sempre voluto immobilizzare me
sempre pronta ad acquattare gli altri
come diceva mio padre
lui morto
mio fratello alcolizzato
ma al quale hai regalato un appartamento
e io... beh lasciamo stare...
perché ho capito cosa sei
una folle una sadica
la tua pacatezza solo una maschera
da beghina assassina
il tuo volontariato alla croce rossa tutti i giovedì
ma non una visita che sia una a me in clinica psichiatrica
le tue paranoie che mi instillavi fino da piccolo
sulla bistecca alla fiorentina che a me piaceva così tanto
e che tu chiamavi cancerogena
le tue fissazioni sui conservanti e i coloranti
la tua ossessione col blu di cui avevi colorato tutto e tutti
il tuo dispotismo e la tua negatività
la tua omofobia e il tuo sminuire tutto di me
i tuoi pregiudizi e le tue ripetute bugie
e nonostante questo
ti ho sempre assurdamente amata
ora non più
sarebbe ingiusto
amare la malvagità
(tratta da Egiemme, Polìmata, 2011)
In quel saccheggio
d’inaudita violenza,
i barbari
lodarono se stessi.
Poi si bearono
di nuove catastrofi,
facendo l’errore
di lasciar vivo
un curioso bambino.
Lui
che aveva occhi verdi
e profondi,
non poté più distrarsi.
Comprò un diario
che si riempì
di brutti voti.
Comprò un astuccio
che qualcuno rubò.
Comprò un quaderno
sul quale abbozzava
schizzi a matita;
ma il suo lavoro
fu condannato.
Allora Lui
ormai grande,
adottò un bambino
diverso e malato
ma con occhi verdi
e profondi.
Lo vestiva con cura,
lo mandava a scuola,
era sempre al suo fianco.
Doveva imboccarlo
per via del suo male.
Lo amava
sapendo l’amore
una cosa che muore.
Ma ora, invocando
il sapere di Apollo
e lo splendore di Febo,
il curioso bambino
domanda permesso.
Chiede un ascolto
che invece qualcuno
ha deciso a priori.
Ha deciso
di non ascoltarlo.
Non è più tempo
di peripatetici,
è il tempo ipocrita
di servi patetici.
Resta una marca da bollo
e un’impiegata statale
col cuore di un pollo.