Castello di Dux, 11 novembre 1793
… E per quanto cerchi di ricordare, alcuni volti del mio passato sfocano e si appannano come i vetri rigati di pioggia; è autunno e qui piove sempre.
Mi sorprendono giungendomi quasi alle spalle, la sera di solito, quando alla luce di una sola candela mi sforzo di scrivere nella mia camera. Sono ombre malinconiche per lo più, hanno bevuto l’intera misura del disincanto e si trascinano ormai solo per abitudine, tuttavia curiose di leggere quello che scrivo e che cosa, soprattutto, scrivo di loro.
Ci sono volte che invece le indovino nel vano buio di un pianerottolo mentre salgo lentamente le scale o tra i battenti di due porte dipinte, dove si sono infilate per osservarmi con comodo senza essere viste. Nella penombra il baluginare fioco della pietra di un anello, il fruscio di una sottana di seta o l’impigliarsi di un pizzo le tradisce e allora vengono fuori quasi con vergogna, un po’ curve, a piccoli passi riottosi. Per darsi un contegno spesso ridacchiano tra sé come accade ai bambini colti in fallo, oppure giocherellano a testa china con qualcosa che hanno in mano: un occhialino, un ditale, un fazzolettino cincischiato tra i denti… questi opachi fantasmi vengono verso di me e forse mi sorridono per farsi perdonare, io non so, io non vedo che volti di nebbia.
Questo è un castello plumbeo come il cielo che v’incombe sopra. L’umidità trasuda dai muri e stinge tutte le tappezzerie che, per quanto ricche, hanno ormai almeno un secolo e sono vecchie e cupamente fuori moda. Quest’assenza di colore mi opprime quasi più del freddo e la sera resto come ipnotizzato dalle fiamme dei camini, senza quasi più conversare, come instupidito: il mio cuore è là dentro, nel colore del fuoco che si torce e si aggroviglia. Qualcosa mi si scioglie dentro mentre la fiamma crepita.
In gioventù fui fin troppo accusato di non averne punto, di cuore, e sempre mi difesi, con spirito e tagliente ironia, le mie vere specialità, a parte l’ars amandi. Ma oggi non so più che pensare, in questo esilio boemo concepisco il mio cuore come qualcosa di totalmente spento o congelato, solo la fiamma di un grande falò potrebbe scongelarlo. O di un metaforico rogo. Ma i roghi sono passati di moda da cent’anni e io sono passato di moda da almeno trenta, e poi, come al mio solito, erro per eccesso d’immaginazione, che fu il mio più gran peccato.
In verità, in questo bel castello che mi accoglie, il mio vecchio cuore è semplicemente divenuto di carta: è fragile, ingiallito e interamente vergato in una superata scrittura ricercata come le pagine dei tomi più antichi di questa biblioteca, nessun fuoco ideale potrebbe più giovargli, al contrario, lo farebbe accartocciare in un amen e poi felicemente trasmutare in un mucchietto di cenere.
Ieri sera, sul finire della solita partita di whist, questo curioso pensiero venne ad assillarmi, unito all’ennui mortale, nonché alla cattiva digestione di un cappone con patate alla tedesca. Il nostro buon cappellano, mosso certo a pietà della faccia lugubre che dovevo avere, ha cercato di alleggerire l’atmosfera e si è informato sul mio vero lavoro, così dice lui, questa interminabile stesura di memorie che mi distrae e tormenta, e che mi tiene ancora in vita, aggiungo.
“Lei si è inventato una nuova vita, caro signore, una vita tra la carta e sulla carta” ha detto con la sua affabilità sempre eccessiva. “Ora, se lei fosse un bibliotecario qualunque, uggioso e pedante quanto basta per badare a 40.000 volumi e metter giù al massimo la biografia della famiglia Waldstein o della vita del caro conte, la cosa si fermerebbe lì, ma, trattandosi di lei, proprio di lei… e delle memorie della sua, di vita, io allora mi chiedo…”.
“Signore, la prego, abbia la bontà di non interrogarsi troppo su una persona insignificante quale io sono… ” l’ho interrotto per farlo smettere, e stavo per aggiunger un piccolo ma incisivo qui alla frase, se quello non me l’avesse impedito, partendo in quarta a inanellare i soliti, triti luoghi comuni che da quarant’anni si filano sulla mia testa, e concludendo con le stupide domande dei seccatori che si dilettano di letteratura: “Oh, no! Non lo dica, non lo dica! È un’eresia questa, caro Casanova, e mezz’Europa mi darebbe ragione! Le rendo merito naturalmente di tanta cristiana modestia, ma quando si è stati quello che è stato lei e si è vissuta tanto concretamente una vita d’eccezione, risulta un po’ curioso, questo volevo dire prima, sì, un po’ curioso parlar così e forse anche scrivere. Io spesso mi domando, sa, quanto scriva lei della sua vita e soprattutto come, se insomma, caro signore, noi tutti avremo un giorno l’onore di leggerne uno stringato compendio o invece un qualcosa di veramente eccitante, il più possibile simile alla realtà vissuta o, ancora, un ineffabile ricamo letterario partorito da sua maestà il ricordo” .
“Se Dio permetterà che lo porti a termine, signore, voi leggerete una vita di carta e nulla di più, così come ci si aspetta da un qualunque rispettabile libro di memorie! Non credo che ci sia altro da aggiungere in proposito e, poiché vedo che il signor de Bouffle ha in mano le carte per vincere la partita, ho il piacere di augurarvi una buona notte”.
Mi sono alzato di scatto per andarmene e cambiare scenario – La mia camera, oh, la mia camera, lassù! – e, se ho lasciato i miei compagni di gioco, liberi dalla mia deprimente presenza, a contare i punti e sparlare di me e del mio sempre più inasprito carattere, è stato sostanzialmente per un altro di quei fulminei eccessi di pazzia (senile?) ricorrente che mi conducono anche a materializzare fantasmi a occhi aperti e ad appuntarli come farfalle infilzate sui miei fogli di carta, in queste mémoires che non mi servono affatto per decifrarmi meglio, ma solo per …
Basta! Tutto ora mi infastidisce, anche, forse, il riflettere.
Salgo quindi le scale, assai irritato con me stesso principalmente per essermi irritato. “Dov’è finito mai il mio laissez-faire?” penso “Un novello adolescente scontroso, introverso e permaloso (ma – ahimè! – dall’aspetto decrepito): ecco in che cosa mi sta trasformando la vecchiaia, unitamente a quella canaglia insolente del maggiordomo e alla maledetta servitù di questa casa!”.
E in questo accesso di rabbia impotente, ecco, proprio nel punto più oscuro del pianerottolo, i miei fantasmi appostati ad aspettarmi. Sembrerebbero questa volta due signore in sete scure e cangianti: è la piccola Teresa, quella, che forse mi sorride con la sua grazia birichina? E se… se miracolosamente quel volto nebuloso ma scintillante fosse della mia indimenticabile Henriette?
Tentare di prenderle per la vita o di afferrarne le mani pallide che a volte si spingono a sfiorarmi una gota è del tutto inutile, lo so per esperienza, perché queste mie ombre sono abili a svanirmi tra le dita in un soffio, dovrò invece pazientare il tempo che occorre per salire la seconda rampa di scale e poi, in camera mia, accomodarmi alla scrivania, e intingere la penna nel calamaio, e riprendere a ricamare in inchiostro nero parole e parole sulla pagina, per farle riapparire d’incanto, così curiose di sapere cosa e come scriva di loro e ben disposte, dietro le mie spalle, a rinfrescarmi dolcemente la memoria.
E una volta ancora respiro i profumi del mio passato e, sulla carta, ricreo volti altrimenti sfocati e, una volta ancora, io li amo e, riamandoli, mi vendico di una vita reale, accartocciata e le volto le spalle, riprendo fiato… e scrivo, scrivo, in questo cantuccio accogliente di un castello deprimente dove però si mangia bene.
Che m’importa se ritaglio figurine di carta sulla carta? Io vivo nella carta.