Sdrucciolò mettendo il piede su una S. Una S qualsiasi, una timida Helvetica, né grande né piccola. Una R Copperplate, piuttosto ambigua, gli fece perdere ulteriormente l’equilibrio. Istintivamente cercò di afferrarsi a qualcosa. Mentre iniziava a cadere, notò una corpulenta M, Goudy Stout, che sembrava osservarlo piuttosto divertita.
Si stupì del silenzio e della lentezza con cui tutto accadeva.
Ogni parola, ogni carattere, volteggiando finivano sul pavimento, come coriandoli in quaresima, e lui con loro. Anche i punti, i punti e virgola, gli esclamativi, i punti di domanda, i due punti, le virgolette, niente riusciva più a stare insieme. A lui il silenzio non piaceva.
Le parole gli avevano sempre tenuto compagnia, con il loro rumore. Il contenuto non era importante, voleva sentirsi riempire dalle parole, voleva sentirne la fisicità, il corpo. Forse era per questo che aveva scelto il lavoro che faceva ormai da trent’anni: il tipografo.
Mentre cadeva, pensò che tutto ciò che aveva sempre cercato di tenere insieme, ora tornava al disordine iniziale. Un BIG BANG al contrario. Un’elegante P Palatino sembrò strizzargli l’occhio con complicità. Forse voleva ricordargli qualcosa. Si ricordò di quando era bambino. Gli vennero in mente la neve e il silenzio che scendeva con lei. Allora il silenzio era pieno di cose e non faceva paura. Una V maligna (riconobbe l’austero Myriad senza grazie) si insinuò tra le sue costole. Penetrò come una lama affilata. Non poté fare a meno di chiedersi a quale parola appartenesse. Forse era la V di vittoria, oppure di vendetta, magari la V di vuoto.
Ora era disteso sul pavimento, si ricordò di una vecchia barzelletta,
« Senza parole », scoppiò a ridere e il sangue zampillò, vivace.