G.G.G.

Grande Circo Moscardini

di Marco Viale

Gli stivali di Giacomo Gian-Giacomo erano bellissimi. Di pelle nera e lucida. Così lucida che sembrava verniciata di fresco. Stivali da domatore. Giacomo Gian-Giacomo aveva sempre desiderato diventare un domatore. Un domatore di belve feroci. Sin da bambino. Ma dove abitava lui non c’erano belve feroci. Neanche un gatto. Però c’erano tantissime mosche. Di tutti i tipi: casalinghe, vagabonde, cavalline, mattiniere, notturne, mangia-zucchero, mangia-cacche, silenziose, solitarie, petulanti, ronzanti, attaccabrighe. E anche mosconi e moscerini. Così Giacomo Gian-Giacomo diventò un ammaestratore di mosche. Un ammaestratore di mosche deve possedere grandi qualità. Per esempio una vista perfetta. Altrimenti come fa a insegnare un triplo salto mortale con avvitamento a un moscerino dell’uva fragolina? E deve avere anche una memoria perfetta: le mosche sono molto permalose, bisogna ricordare il loro nome una per una e fare attenzione a non sbagliarsi mai. La prima mosca che Giacomo Gian-Giacomo addestrò la chiamò Clara. Come sua zia. E in effetti assomigliava un po’ a sua zia. Clara sapeva volare a zig-zag, sulla schiena e in verticale e scendeva in picchiata come nessun’altra. Ma la grande specialità di Clara erano i conti. Riusciva a fare addizioni, sottrazioni e moltiplicazioni. Con le divisioni aveva qualche difficoltà, soprattutto quelle con la virgola. Ma chi non ne ha. Dopo Clara fu il turno di Romilda, Pucci, Piera, Filomena, Dada, Gina e Carla. Nella scuderia di Giacomo Gian-Giacomo c’era anche un moscone. Era un moscone verde, di nome Tiberio, un vero tipaccio. Aveva una forza straordinaria, da solo trascinava una slitta con trentadue mosche, che, una sull’altra, formavano una piramide di mosche. Purtroppo tutte le mosche si innamoravano di lui e, siccome una mosca innamorata pensa solo all’amore, il lavoro ne risentiva moltissimo. Così, a malincuore, Giacomo Gian-Giacomo sostituì il numero del moscone con una squadra di moscerini cinesi talmente coraggiosi da cimentarsi anche nel triplo salto mortale. Un giorno, la scatola dei biscotti in cui vivevano le mosche di Giacomo Gian-Giacomo venne rubata dalle scimmie. Le scimmie, che sono ghiotte e curiose per natura, aprirono la scatola pensando di farsi una scorpacciata di biscotti. Ma rimasero con un pugno di mosche in mano. Anche Giacomo Gian-Giacomo rimase con un pugno di mosche in mano e con il cuore spezzato. Per molto tempo non riuscì a fare altro che pensare alle sue adorate mosche che non c’erano più, e non la smetteva di piangere. Pianse tutte le lacrime che aveva e anche di più. Un giorno, aveva appena smesso di piovere quando una mosca si posò sulla sua mano destra e iniziò a sfregarsi con energia le zampette. Giacomo Gian-Giacomo la guardò e sorrise con tenerezza. Era il primo sorriso dopo tantissimo tempo. Nello stesso momento un luminoso arcobaleno si aprì nel cielo come un ventaglio di seta.