che poi... non hai mai saputo vivere. stupida.
il caldo che incrostava le zanzariere nella piccola casa di quella pittrice tedesca. senza talento. le annaffiavamo le piante in estate in cambio di un letto.
eravamo i depressi del quartiere, ti ricordi? c’erano giorni in cui ti dovevo legare perfino le scarpe tanto ti mancavano le braccia. e le mani.
litigare. scopare. starsene zitti. scopare. disegnare. fare l’amore. camminare. scopare. male. restare svegli a fissare la condensa iridescente che si formava sul condizionatore bianco. per ore. muti e immobili... eravamo una fotografia a tre milioni di megapixel.
hai avuto la fortuna di stare un po’ peggio di me. quel poco sufficiente a trasformarmi subito in quello quasi risolto e quasi civile. ero il tuo analista a domicilio. fanculo. solo perché non vomitavo a ogni pasto e riuscivo a vedere un film di tarkovskij dall’inizio alla fine senza piangere.
è stato proprio come fare un picnic sul ciglio della strada. con te. i nostri figli di plastica e le posate di carne. sulla tovaglia color xanax. i tovaglioli di carta daparox e i bicchieri paroxetina. le auto che passavano senza investirci. ammettiamolo, sì, quasi rispettose. intimidite. educate. a volte si fermavano per me. altre per te. ci salivamo su a turno e ci facevamo portare lontano per un po’.
a farci strapazzare un po’. idioti.
presi singolarmente riuscivano anche a comprenderci, no? beh, sì. mi pare di sì. avevamo i nostri... insomma, sai cosa voglio dire. ma insieme no. tutto quel rispetto... quella distanza, ci vedevano come i barboni che dormono sui gradini della stazione. quasi una seccatura sociale. non so...
inchiodasti a un centimetro dal guardrail, ridevi, bevuta, su quella stradina di montagna. ghiacciata. ridevi come una matta. come una matta: “non ho mai imparato a guidare!”. non hai mai saputo fare niente.
te lo dico: eri sbagliata dalla testa ai piedi. bella testa. bei piedi. è vero. molto belli. ma dentro, sotto la tua pelle sottile e trasparente che odorava di cannella... io lo vedevo. sì, lo vedevo... eri piena di pennarelli coloratissimi e mezzi secchi. 30 confezioni sparpagliate all’interno dei tuoi 170 centimetri. spuntati, morsicati... con i tappi persi chissà dove. coloratissimi... da mettere una malinconia infinita tra le ossa. le mie.
una pillola appena svegli e una pillola prima di andare a dormire. abbracciati, in quelle ore buie di solitudine. le colazioni davanti ai notiziari in giapponese. dicevi che le radiazioni dello schermo... rendevano certe notizie più credibili.
io nel mio ruolo del quasi cosciente. tu che recitavi in quell’ex nosocomio con quella compagnia di timorati di dio. te li ricordi? sì, lo so, gente in gamba. ma mi sono sempre sembrati dei timorati di dio, non ci posso fare niente, te l’ho già detto che stavo male quanto te? quasi quanto te. ecco, li vedevo così. come intellettuali in attesa di una punizione. ma ero felice quando stavi con loro, davvero. perché quelli erano i pomeriggi in cui a casa potevo piangere davanti a un film di tarkovskij senza farmi vedere da te. senza farti credere di essere sola al mondo e di non avere più il mio quasi coraggio e la mia quasi forza. il mio supporto incondizionato. le mie attenzioni da tutor volontario. almeno adesso lo sai. fingevo. ma sì, lo sai.
e quando tornavi, la sera, stanca e senza appetito, ti medicavo quella bruciatura sul polpaccio che ti eri fatta non ricordo più come. mi sorridevi. non te lo dicevo, ma quella bruciatura faceva più male a me che a te. questo è sicuro.
eri la donna-scatola-di-pennarelli-mezzi-sputtanati migliore che avessi mai incontrato.
ma davvero, credo che il tuo polpaccio facesse più male a me. che a te.