Mi occupo di reclusione da più di un decennio. Ho iniziato raccontando la storia di un internato a vita in un manicomio. La storia di Nannetti Oreste Fernando, che, dopo essere stato processato per oltraggio a pubblico ufficiale e prosciolto per vizio totale di mente, trascorse il resto della sua esistenza nel reparto Ferri dell’ospedale psichiatrico di Volterra. Nannetti Oreste Fernando, per cercare di sfuggire a quel terribile destino, impiegò il suo tempo a incidere un diario visionario sul muro esterno del reparto dove era ricoverato, utilizzando la fibbia del panciotto della divisa da ‘matto’. La più grande di queste ‘pagine’ di memorie è lunga 180 metri e alta 2. Racconta in modo molto enigmatico della reclusione, dell’infanzia, della storia a lui contemporanea… ma Nannetti parla anche di un futuro prossimo venturo in cui le astronavi lo aiuteranno, chissà, probabilmente, a evadere. Scrisse inoltre un gran numero di lettere e cartoline a parenti immaginari, firmandosi con le sigle ‘Nanof’, ‘Nof’ o ‘Nof4’ e definendosi, senza soluzione di continuità, astronautico ingegnere minerario, colonnello astrale, scassinatore nucleare. Nof erano le inziali del suo nome, mentre 4 era il numero di matricola che gli era stato assegnato appena entrato in manicomio. Lavorando a questa storia e intervistando numerosi internati sopravvissuti al tempo e ai manicomi, ho compreso quanto la reclusione possa essere devastante per la mente di chiunque. Molte di quelle persone erano passate da sane a pazze stando tra quelle mura. Alcuni mi raccontarono di come gli infermieri fossero convinti di fare del bene e pensassero di essere gentili, ma non riuscissero a comprendere come il vero problema per i malati fosse proprio essere lì dentro. Tra quelle mura. In manicomio. Fu solo con l’approvazione della legge 180 del 1978, promossa da Franco Basaglia, che le cose migliorarono e i manicomi finalmente chiusero i battenti.
Anche se erano cose che in parte già sapevo, fu illuminante. Ricordo che pensai a quanto la reclusione fosse ancora presente nella nostra società sotto varie forme, a quanto le persone facessero fatica a comprendere davvero cosa significasse essere liberi fino a quando la libertà non veniva loro tolta. Ovviamente, non era ancora il tempo del Coronavirus, che forse, e dico ‘forse’, ci ha aiutato ad avere un’idea meno superficiale in merito. Oggi sappiamo come persino la nostra vita sociale, apparentemente libera, non lo è affatto, incasellata in condizionamenti che non percepiamo come tali. Sbarre invisibili ai più. Tutte cose che sembrano scontate, ma che in realtà non lo sono. Ricordo che mentre scrivevo il reportage pensai anche a quello che facciamo agli animali. A come privarli della libertà sia una delle azioni principali che mettiamo in atto nei loro confronti. Qualche anno dopo, decisi di occuparmi degli zoo e dei delfinari. I delfinari sono prigioni. Per molti questo è un luogo comune, ma chi lo sostiene forse parla per ignoranza o per interesse. D’altra parte, chi non ha mai visitato un delfinario non può capire fino in fondo di cosa si tratta. Sembra difficile da credere, ma è così. Le fotografie, i video, non sono assolutamente in grado di rendere l’idea. E non è un modo di dire. Parlo per esperienza. Prima di vedere da vicino una vasca per la prima volta, molti anni fa, immaginavo che le dimensioni fossero comunque in qualche modo pensate per rendere sopportabile la vita a questi animali. Invece non è così. Non c’è davvero nulla che possa essere scambiato per qualcosa di vivibile, quando ti trovi davanti a queste celle. Ho compreso, quindi, che non sono le dimensioni a essere in qualche modo compatibili con la vita dei delfini, ma piuttosto i delfini ad avere un’incredibile capacità di adattamento. Questi mammiferi dimostrano infatti di essere in grado di sopravvivere anche nelle condizioni più difficili e, in un tempo relativamente breve, la maggior parte di loro – quando non impazzisce, evidentemente – riesce persino a costruirsi una sorta di vita resistente alla situazione. In carcere i detenuti fanno lo stesso. Ormai da anni insegno in una casa circondariale e ho avuto modo di vedere le reazioni di numerose persone. Nella maggioranza dei casi, dopo i primi drammatici giorni, subentra una fase di rassegnazione che coincide con l’accettazione. Naturalmente molto dipende anche dalla lunghezza della pena da scontare, ma abbastanza di rado capita di vedere qualcuno che, in qualche modo, non cerca di sopravvivere provando a costruirsi una sua ‘normalità’. Al contrario di quanto spesso si pensi, in carcere si ride e persino si gioca. Questo però non significa che non si soffra, anzi. Piuttosto la sofferenza è così forte che l’unica risposta possibile per non impazzire è riuscire a far buon viso a cattiva sorte. E quando questo non riesce più, purtroppo finisce in tragedia. Parallelamente, è proprio una delle cose che sostengono gli addestratori per legittimare i delfinari: “I delfini qui da noi giocano e si divertono. Come possono star male?”. Molto più realisticamente i delfini lo fanno non solo perché costretti, ma anche perché, proprio come i detenuti, cercano di sfuggire alla noia e, probabilmente per spirito di sopravvivenza, riescono a nascondere in qualche parte del loro cervello ciò che significa nuotare liberi in mare. Una vasca, mediamente, è lunga circa 50 metri; un delfino, in natura, ogni giorno percorre circa 30 km in mare. Non sono sufficienti questi numeri per rendersi conto di cosa stiamo parlando? Nella vasca, tutta in cemento e con solo qualche pallone galleggiante come divertimento, principalmente il delfino dorme. Questi mammiferi, quando non sono impegnati nei numeri degli spettacoli per il pubblico, attivano quasi sempre il “sonno a onde lente”, così chiamato perché, durante il riposo, solo uno dei due emisferi del cervello perde coscienza, mentre l’altro funziona regolarmente. I visitatori dei delfinari, quindi, non possono neppure accorgersene. Per loro i delfini stanno semplicemente nuotando. In carcere vige una regola non scritta che tutti rispettano e che recita più o meno così: “Quando un detenuto dorme, non svegliarlo perché il suo tempo sta passando più rapidamente”. Forse i delfini pensano lo stesso. Di certo, è insopportabilmente triste pensare che questi animali non vedranno mai più il mare e che saranno costretti ad accettare gli orari imposti dagli addestratori per ogni giorno della loro vita, orari che finiranno per renderli sempre più simili a marionette che si muovono a comando. Ma allora perché in così tanti non riescono a comprendere queste cose? Perché ancora visitano i delfinari? Sinceramente non credo che ci sia una risposta unica. Di sicuro molte persone lo fanno perché non riescono a vedere null’altro che dei delfini felici. Che si divertono. Altri non riflettono su cosa significa “per sempre” e altri ancora non si pongono il problema. Eppure chiunque, ne sono certo, se si soffermasse anche un solo minuto a riflettere su cosa significa “per sempre rinchiusi tra quelle mura di cemento”, non potrebbe che definirsi per lo meno contrario. In Italia i delfinari che, al momento, detengono delfini sono tre: Oltremare di Riccione, l’Acquario di Genova (entrambi del Gruppo Costa Edutainment, già proprietario di numerosi acquari in Italia e all’estero) e Zoomarine a Roma (da poco acquisito dalla multinazionale Dolphin Discovery, proprietaria di una ventina di delfinari tra Caraibi e Sud America). Fino al 2014 erano sei. Per motivi differenti l’ex delfinario di Rimini, il delfinario dello zoo di Fasano e quello di Gardaland hanno cessato le attività. Questo è senza dubbio un dato positivo, che rispecchia una crescente sensibilità delle persone, anche se, va detto, i numeri non sono certo miracolosi. Basti pensare che nel 2019 Zoomarine ha superato il mezzo milione di visitatori. Quindi c’è ancora molto da fare. Nella speranza che un giorno arrivi un Franco Basaglia e una legge 180 anche per i delfinari.