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La mia famiglia e altri animali

di Gerald Durrell

Mi accompagnò lungo un corridoio, aprì una porta e, con mia enorme sorpresa, mi fece entrare in una vasta camera da letto in penombra. La stanza era come una foresta di fiori; vasi, conche e recipienti di coccio erano posati un po’ dappertutto, e da ognuno traboccava una massa di splendide corolle che scintillavano nell’oscurità, come pareti di gioielli in una grotta ombreggiata di verde. A capo della stanza c’era un letto enorme, e nel letto, appoggiata a un mucchio di cuscini, giaceva una minuscola figura non più grande di un bambino. Quando mi avvicinai capii che doveva essere vecchissima, perché i suoi tratti fini e delicati erano coperti da un intrico di rughe che solcavano una pelle morbida e vellutata come quella di un fungo neonato.
Ma in lei la cosa stupefacente erano i capelli. Le ricadevano sulle spalle come una gonfia cascata e poi si spargevano per un tratto giù dal letto. Erano d’un intenso e bellissimo color rame, luminosi e scintillanti come se fossero in fiamme, e mi fecero pensare alle foglie d’autunno e al vivido pelo invernale delle volpi.
“Mamma cara,” disse dolcemente Kralefsky, attraversando la stanza e sedendosi su una sedia accanto al letto “mamma cara, Gerry è venuto a trovarti”.
La minuscola figura sul letto sollevò le palpebre trasparenti e pallide e mi guardò con grandi occhi bruni, vispi e intelligenti come quelli di un uccello. Trasse dal folto della sua ramata capigliatura una mano sottile e bellissima, appesantita di anelli, e me la porse, sorridendo maliziosamente. “Sono così lusingata che tu abbia chiesto di vedermi” disse con una voce sommessa e velata. “Al giorno d’oggi tanta gente considera una persona della mia età una vera seccatura”.
Imbarazzato, mormorai qualcosa, e gli occhi brillanti mi guardarono ammiccando, e lei diede in una garrula risatina da merlo e batté la mano sul letto. “Siediti qua,” mi invitò “siediti e chiacchieriamo un momentino”.
Con grande cautela raccolsi la massa di capelli ramati e la spostai da una parte per potere sedermi sul letto. I capelli erano morbidi, serici e pesanti, come un’onda color fiamma che mi scorresse tra le dita. La signora Kralefsky mi sorrise e ne prese una ciocca, facendosela rigirare tra le dita perché scintillasse.
“L’unica vanità che mi sia rimasta,” disse “tutto quel che resta della mia bellezza”.
Contemplò quell’ondata di capelli come se fosse un cucciolo, o qualche altra bestiolina che non avesse nulla a che fare con lei, e se li accarezzò, affettuosamente.
“È strano,” disse “molto strano. Io ho una teoria, sai? Che alcune cose belle s’innamorano di se stesse, come Narciso. E quando questo succede, non hanno nessun bisogno di aiuto per vivere, diventano così prese dalla propria bellezza che vivono soltanto per quella, nutrendosi di se stesse, per così dire. In questo modo, più si fanno belle e più forti diventano: vivono in un circolo. I miei capelli hanno fatto proprio questo. Sono autosufficienti, crescono soltanto per se stessi, e il fatto che il mio corpo sia andato in rovina non li turba minimamente. Quando morirò, se ne potrà colmare tutta la mia bara, e probabilmente loro continueranno a crescere anche quando il mio corpo sarà ridotto in polvere”.